domenica 13 ottobre 2019

PETER HANDKE, UN DISINVOLTO MONDO DI CRIMINALI di Rita Guidi


Risultati immagini per handke  Rilancia contro il tappeto vincente d’Occidente, contro i dadi truccati di ogni verità, ma è un azzardo costoso fino alla riprovazione, o agli sguardi dubbiosi che la gente, ora, rivolge a lui. Peter Handke. Autore e scrittore, ma questa volta soprattutto uomo e intellettuale, alle prese con un viaggio difficile quanto gli appunti che ci offre come le più spietate delle pagine.
 Iugoslavia (ex), marzo e aprile 1999. Milosevic e i serbi. La guerra Nato contro lo sterminio e le bombe. Ma nella Chaville di Handke, illuminata dagli echi metropolitani della vicina Parigi, sembra che nessuno, salvo lui, senta il rumore dei tanti aerei dal carico mortale che decollano proprio da lì. Sembra che tutto il mondo con il suo drink in mano (non canta così anche il nostro Ligabue?) preferisca di gran lunga il piacere di brindare alla consapevolezza di guardare su e guardare fuori.
 Per questo parte. E per questo titola il suo irriverente taccuino “Un disinvolto mondo di criminali” (Einaudi, 84 pagg., 10 euro). Diario drammatico che riprende la riflessione già oggetto di feroci critiche di “Un viaggio d’inverno” e “Appendice estiva a un viaggio d’inverno”. Lungi dal ritrattare le sue posizioni, dolorosamente insensibile agli attacchi anche verbali dei quali lo fa oggetto chi lo riconosce, Handke conferma anzi senza appello il suo no a certe logiche da superpotenza, alla voce monocorde dei mezzi di informazione, all’ovvia adesione, insomma, ad una imposta (e unica) verità.
Risultati immagini per disinvolto mondo di criminali handke Quattro giorni prima (dal 30 marzo al 2 aprile) e sette dopo (dal 23 al 29 aprile) in questo vicino Est frammentato e martoriato, gli bastano e avanzano per convincerlo che l’aggettivo “chirurgico” non serve a rendere diverso il risultato di morte di un bombardamento. E che insomma nessuna bomba, per nessuna logica, potrà mai essere giusta, necessaria, santa.
 “Strano come proprio la disintegrazione degli utensili – scrive ricordando la sosta alla fabbrica Zastava di Kragujevac - dei banchi da lavoro, delle tenaglie, delle morse, delle barre, dei chiodi e delle viti (spianati e spezzati persino gli elementi più piccoli) mi abbia colpito più di quella dei grandi macchinari. Era come se con questi utensili le criminali potenza celesti avessero annientato in tutto il circondario il lavoro, vale a dire ogni cooperare ed esistere (l’esserci) per un tempo indeterminato.”
 E indeterminata è davvero la vita che, in queste parole e sensazioni come ammucchiate nello zaino di un corrispondente dal fronte, gli sopravvive intorno. Perché appunto ci sono le bombe…
 “Le bombe…così repentine e dirompenti nello spazio (e al tempo stesso annientatrici dello spazio) – annota in una drammatica notte vissuta sulla via del ritorno all’Hotel Metropol di Belgrado – così tangibili e randellanti che paroline aggiunte come subitaneo o improvviso fanno un effetto di calma e prolissità. E così  attacco aereo dopo attacco aereo, per tutta quanta la notte. Impossibile abituarsi. Ed è chiaro che quelli esposti al frastuono giorno dopo giorno devono diventare balbuzienti, non soltanto i bambini.”
 E le bombe cadono sui ponti e sulle strade, sugli aeroporti e sulle ferrovie. Una precisione a bassissimo margine di errore, guidata da una “logica secondo la quale – accusa di nuovo Handke -  possono essere bombardati anche un campo di mais e un pollaio perché mais carne di pollo e uova servono da vettovaglie per la soldataglia.”
 Il disagio forte è sentire il decollo di quegli aerei esattamente dietro casa (“l’aeroporto militare dietro la collina dove abito (…) Nessuno sembra sentirli?”). Che pure è la sua casa… “Il mio centro del  mondo è dove è mia figlia. Il mio tavolo è qui a Chaville, sono qui le mie matite, i miei alberi quando li attraversa il vento e quando di tanto in tanto regna una certa tranquillità”.
 Una certa tranquillità: quella che ti fa pensare di poter credere che possa scoppiare la pace così come scoppiano le bombe.

                                               Rita Guidi

lunedì 29 luglio 2019

IN VIAGGIO NELLO SPAZIO-TEMPO DELLA RETE: IL SEGNO DI PARMA di Rita Guidi


Sembra un mondo lontano: eoni, e invece sono pochi anni.
 Fa sentire pionieri. Perché davvero siamo stati i primi. Settembre 1994. Quando la Rete in Italia si annunciava con timidi vagiti, sotto la nostra tastiera aveva già preso forma “Il Segno di Parma”: rivista culturale multimediale, ideata, scritta e diretta da Rita Guidi e realizzata tecnicamente – in quella neonata Rete, appunto – da Francesco Zanichelli.

Qualcosa di sorprendente e tenero insieme, alla luce dell’oggi. Perché dopo il Big Bang di Internet è buffo e incredibile leggere di come ovviare al ‘peso’ delle immagini, o alla difficoltà di trasmettere un brano musicale… 
Eppure, con tutto questo, “Il Segno di Parma” è lì. Anzi, è qui. Realtà preziosa e bellissima, che con orgoglio – come archeologi di un mondo lontanissimo eppure solo di ieri – possiamo e vogliamo riproporvi. 
Buona lettura

0.       http://www.ce.unipr.it/z/segno/settembre/segno.html  [Anno 0 N.0 Settembre 1994]
1.       http://www.ce.unipr.it/z/segno/ottobre/segno.html  [Anno 1 N.1 Ottobre 1994]
2.       http://www.ce.unipr.it/z/segno/novembre/segno.html [Anno 1 N.2 Novembre-Dicembre 1994]

martedì 9 luglio 2019

INTERVISTA A DON UMBERTO COCCONI di Rita Guidi


Risultati immagini per don umberto cocconiAvrà la barba, Dio ? Sfogliando questi disegni sembra proprio di no. Pantaloni verdi e maglia azzurra, il volto amico e le braccia “grandi grandi”, da un ideale papà lo distingue solo una corona, ma lo si può già chiamare così. O almeno così lo pensa Silvia, e molti under-8 come lei.
Forse è allora questa, oggi, l’immagine bimba dell’eterno. Qualcosa che poi inevitabilmente cambia. Per lasciar posto ad altre idee. Ad altre età di Dio...
“Esistono molti studi, anche in tradizioni religiose differenti, che raccontano di un Dio dei bimbi - spiega Don Umberto Cocconi, giovane Direttore dell’Ufficio Catechistico della nostra Diocesi - Qualcosa di innato, direi quasi genetico, insito nella natura umana. Una religiosità ampia, che vive delle domande che pongono e si pongono i più piccoli, e che poi saranno gli adulti a condizionare, indirizzare. A volte anche a spegnere.”
Il mondo di colori sparso sulla scrivania, rivela limpido tutto questo (oltre all’attenzione a un tema che sarà oggetto di dibattiti e incontri nell’aprile prossimo). E proprio i colori, sono il veicolo scelto (l’unico possibile ?) per dialogare su Dio con chi ha meno di sei anni...
“E’ un Dio mediato quello che possiamo insegnare loro. Il suo volto sarà quello dei genitori, e l’aldilà i colori che ogni piccolo vorrà immaginare. Lasciamo molto alla loro fantasia, anche se lo stimolo è un racconto che riprende i primi undici capitoli delle genesi. Un testo ricchissimo di immagini, nelle quali però Dio non viene rappresentato. Piuttosto, è luce. Di più : colui che parla e ti parla, e ti toglie dalla solitudine...”
Idea senza età, allora questa. Stesso Dio degli adulti...
“Certo. Ma vale anche il contrario : dice il Vangelo che se non si diventa come bambini non si entra nel Regno dei Cieli...”
Nell’aldilà. Un luogo pensato o dimenticato dall’uomo di questa fine secolo ?
“La spinta è ad anestetizzare, addormentare...Un telecomando per tutto e l’uomo crede di poter bastare a se stesso...La nostra società tende a spegnere le grandi domande (perché si esiste, perché si soffre) che ci sono in noi, e sono queste che mantengono vivo il nostro dialogo con il trascendente”
Eppure le nuove forme di spiritualismo ? E anche al cinema, sembra che il Paradiso non possa attendere...
“Ogni immagine dice qualcosa di vero ma non può dire tutto. Lo stesso vale per le parole, quelle che io definisco pesanti, perché possono contenere di tutto. Se dico Paradiso, ognuno di noi fantastica un pensiero diverso. E’ quel che accade anche in questi film, che fanno leva su questo, la suggestione, il sentimento. Ma è solo una parte di verità. Poi però c’è anche la ragione.  Sono allora un’occasione, una scommessa, un desiderio. Utili, se invitano a riflettere. Perché il dialogo deve comprendere tutto : fede e sentimento ma anche ragione,”
Troppi colori, insomma, rischiano di far scomparire un Dio più adulto...
“Dio sparisce se c’è troppa confusione. Non comunica con effetti speciali. Usa il canale della coscienza e del silenzio. Se ascolti il silenzio ascolti Dio. Voce ancora più forte quando siamo chiamati ad esperienze fondanti ; il contatto con la morte, il vissuto di una malattia...”
Le stesse che spingono anche i più piccoli ad interrogarsi...
“Interrogarsi...sorprendersi...Non c’è differenza tra adulti e piccini nell’importanza di questa dimensione. E’ lo stupore, la meraviglia (verso il marito o la moglie, la quotidianità o il giocattolo) che ci sottrae ad uno stato vegetativo e ci fa entrare in contatto con Dio e con gli altri.”
Non c’è differenza. Don Umberto Cocconi sfoglia i disegni e sorride : quel Dio giovane e buono, che vive in cielo ma a volte anche in terra, con le gambe lunghe lunghe e “secondo noi certamente un maschio”, dovendo dargli un nome, molti scelgono “papà”...
“Cristo non ci ha detto proprio questo ? Che Dio è Padre ? Anzi, proprio un papà di cui non si può avere paura ?”
Un papà : come quello del Rembrandt scelto ad illustrare la copertina del libro per la catechesi degli adulti di quest’anno. Si intitola “Il ritorno del Figliol Prodigo”, e dai toni ombrosi del grande artista, emerge la luce misteriosa e calda di un abbraccio. Le mani diverse (una di uomo e una di donna). Il figlio in ginocchio, il volto seminascosto che si rivela essere quello rinato di un feto, protetto quindi da una madre e da un padre. Da un volto sereno, anche se anziano. Con la barba.
E’ questo il Dio paterno che deve immaginare l’uomo di oggi. Ma per quale Paradiso ?
“Quale Paradiso ? Quale aldilà ? - Don Umberto riflette solo pochi istanti - Qualcosa di molto vicino al presente. L’uomo contemporaneo non dovrebbe pensarlo come una soglia, una vita diversa da quella di adesso. I momenti magici in cui ognuno di noi è stato davvero se stesso : quella è la vita eterna. Non quella che inizia con la morte. Siamo già all’inferno, siamo già sottoterra, se restiamo avvinghiati alle cose di questo mondo. Siamo già nella vita eterna se siamo autentici. Se siamo nell’amore. L’amore esiste sempre.”
Si può già chiamare Paradiso.

                                    Rita Guidi

giovedì 4 luglio 2019

INTERVISTA A DAVIDE BARILLI di Rita Guidi


Risultati immagini per davide barilli Dalle grandi finestre si vedrebbe la porta più antica della città. A lasciar loro lo spazio. La luce di Parma entra invece filtrata da altro : piante esotiche, quadri. Un profumo d’incenso.
Casa Barilli : Davide. Gambe lunghe quanto una dinastia. Una sedia a dondolo che arriva da Cuba ed è un trofeo al desiderio sul quale è difficile immaginarlo, sguardo quasi sempre vestito di nero, baffi seri da bel tenebroso. E invece dell’anima, fogli : qualcosa di concreto per dribblare quel tanto che si può le esigenze di un mondo cui non basta il pensiero.
Davide non pittore, allora, non artista o regista. Ma Barilli autore. Scrittore. E giornalista : per amore e per caso...
“Qualcuno ha detto che o si nasce con il desiderio di fare questo mestiere, o invece càpita - dice, tutto il tempo di lasciar cadere nel posacenere un po’ di sigaretta - A me è càpitato. Ma comunque mi piace, mi diverte. Ha pur sempre a che fare con la scrittura...”
Che poi è il suo mondo, da avaro di chiacchiere.  Un esempio ? Questo “La casa sul torrente”, raccolta di ritratti parmigiani ripresi dalla collana di interviste pubblicate dalla “Gazzetta di Parma”, ora edito dalla Guanda ; più racconti che domande. E questa intervista : più raccontata che reale. Perché preferisce lasciar parlare le parole. Scritte. Perché da intervistatore a intervistato è un silenzio diverso.
“Sono un pessimo intervistatore - spiega, comunque - Non preparo le domande. Niente. La prima cosa che mi studio è la faccia, il luogo, la casa. Preferisco osservare, divagare e far divagare. Allontanare dal centro chi si sta raccontando. Cerco i rivoli. Un modo per sfuggire alla trappola delle risposte preparate, scontate.”
Anche nella scelta dei personaggi, sembra sia andata così. Vite lontane dall’epicentro assoluto del Battistero. Parmigiani, ma apolidi...
“Mi interessavano persone un po’ spaesate, parmigiane per modo di dire. Persone segnate da un destino (che so ? La Pariset, trasformata in icona da una foto per caso) ; o anche il senso della fuga. E dunque Parma, ma in viaggio, che si muove. E come luogo di ritorno, prigione, o nascondiglio.”
Più cornice che città ?
“Forse. Come forse, a volte, Parma è una cornice. In certi casi dorata, rococò. In altri poverissima, di legno di pioppo...ma dentro ci sono delle pennellate, degli abbozzi di storia.”
E ci tiene, a questo termine...
“Di storia, sì. Anche per questo, più spesso, ho intervistato persone anziane. Quelle che hanno più cose da dire e meno speranza di essere ascoltate. Parlare con chi ha ballato guancia a guancia con la Dietrich o che è un vero poeta anche se non ha mai pubblicato una riga, significa allora sfuggire una certa idea di contemporaneità. Mettere da parte la caccia alla notizia (che però è fredda, senza storia) e ascoltare le storie (la storia), che forse è senza notizia ma non senza traccia.”
Il tempo della pazienza contro quello della fretta, conclude. Lo stesso che ha cercato lui, davanti alla tastiera...
“Le ho scritte di notte - sorride - Queste interviste le ho scritte tra le una e le cinque del mattino. Una questione per cui avevo bisogno di star solo. Almeno fino all’arrivo delle donne delle pulizie...”
Qualcosa che avrebbe cambiato ?
“Forse avrei preferito trasformare il discorso diretto in un racconto, ma le avrei snaturate.”
Qualcosa (qualcuno) che gli è riuscito un po’ meno?
“Paola Pitagora. Non l’ho sottratta più di tanto a un racconto fatto altre volte. Insomma, è un’attrice...”
Qualcosa (qualcuno) che gli è riuscito di più ?
“Il pittore Benassi. Nel senso che è stato una scoperta, un’emozione. I suoi quadri strani, di donne svasate ; il luogo quasi clandestino, una chiesa  sconsacrata...Mi è piaciuto il suo candore.”
La parmigianità che ne è emersa ?
“Spero non quella scontata, stereotipata. Luigi Malerba, molto tempo fa, scrisse in un racconto di una Parma vuota , nella quale dal cemento affiorava un rumore di fondo. Un battito. Per me la parmigianità è questo battito”
Qualcosa che ripara, un profumo un quadro un suono, dalla luce troppo forte o troppo finta della città. E che pulsa nelle persone prima ancora che nei personaggi ; anche in quelli che non è riuscito a intervistare (Ubaldo Bertoli, Roberto Tassi...in un modo o nell’altro irraggiungibili). Ma che c’è e c’è in tutti...
“Tutti questi nomi, tutte queste voci, mi hanno fatto capire che per ogni vita non esiste la parola fine - ricorda - Forse perché raccontandosi, era come se mi parlassero di qualcosa d’altro da sé. Qualcosa che stava loro accanto, come un’ombra.”
Dalle finestre su Piazzale Santa Croce, oltre il profumo d’incenso, si intravvede ora il riflesso dei lampioni :
“Del resto- conclude -  parlare di sé è un po’ questo : parlare di un’ombra.”

                                    Rita Guidi

mercoledì 26 giugno 2019

L'IMPORTANZA DELL'INTELLIGENZA EMOTIVA (D.GOLEMAN) di Rita Guidi


Sua eccellenza l’istinto. La personalità, la simpatia. Tutto quello che sta in mezzo, tra mente e cuore, cognizione ed emozione.
Daniel Goleman la chiama intelligenza emotiva, definizione che divenne titolo del precedente successo di questo prof di psicologia ad Harvard, ma anche rinnovato argomento del volume che esce ora per Rizzoli : e cioè “Lavorare con intelligenza emotiva”.
Perché l’autore insiste. Logica e razionalità ? Troppo fredde, non bastano. QI elevato ? Un mito conseguente, non significa nulla. Oggi (ma anche ieri) serve altro. E quello che serve somiglia molto alla rivincita dell’ultimo della classe. Il collezionista di sei, paradigma peraltro di qualche buon vecchio detto popolare, diventato leader maximo dell’azienda nella quale lavora, da impiegato, l’ex-brillante sessanta-sessantesimi.
Perché ? Ve lo spiega Goleman. Bando a qualunquismi e con dati alla mano. C’è tutta una storia, dice, dalla sua ; ed è storia interessante non da poco, dal momento che riguarda gli ingredienti essenziali per la miglior ricetta produttiva. E così, prima venne il taylorismo, inizio secolo : una corrente destinata ad analizzare i movimenti meccanicamente più efficienti eseguibili dai lavoratori. Il più bravo ? L’uomo macchina, of course. Poi venne il QI, quel quoziente intellettivo misurabile con un semplice test, più vicino a una realtà umana post-industriale. Ma limitato e limitante. Soprattutto quando negli anni Sessanta ci si mise in mezzo Freud. Ma la data fatidica è il 1973, quando David McClelland, docente di Harvard ( e di Goleman) pubblicò un articolo (“Testing for Competence Rather than Inteligence”) che spostò totalmente i termini del dibattito. Il dito puntato su chi, pur con un ottimo voto di laurea, si ritrova magari a spasso, mentre quel simpaticone dal mediocre QI è il capo che seguono e che vorrebbero tutti. Tutto perché lui ce l’ha. L’intelligenza emotiva. Criterio base, oggi, per distinguere chi ha i numeri per eccellere sul lavoro. La dimostrazione è qui, nel primo dei cinque punti che scandiscono il libro. Un cocktail vincente, che mixa dodici capacità specifiche, riassunte ed elencate nella seconda parte ; la terza destinata invece a considerare le tredici abilità fondamentali nelle relazioni. Che non sono poche. Ma se non le possedete tutte, la quarta sezione è organizzata proprio  in consigli su come affinare almeno quelle, con tanto di esempi pratici nella quinta.
Attenzione però, perché come chiarisce lo stesso autore in premessa, questo non è un libro di auto-aiuto. Un manuale per il leader fai-da-te. Se ci fossero regole (razionali, logiche) da seguire, allora si tornerebbe ai vecchi tempi del QI. Se ci fosse una formula, al posto di quella sorridente creatività ed empatia, cui invece siamo chiamati dalle sempre più variabili circostanze di lavoro, che intelligenza emotiva sarebbe ?

                                         Rita Guidi

martedì 25 giugno 2019

LA BELLEZZA DELLE GELOSIE di Rita Guidi

Risultati immagini per gelosie architetturaLe “gelosie” traspaiono forte la loro storia immediata e complessa, solo un poco sbrecciata e sempre più rara, come i muri cui appartengono.
Non a caso è questa l’immagine, una matita con tabarro e fienile di Gaibazzi, che apre come segno e copertina il denso catalogo “Edifici Rurali Storici - metodologie per il recupero”. Catalogo che accompagna una mostra, certo (curata dagli architetti Marco Bennicelli e Giacinta Manfredi), ed anche un convegno (la partecipazione è gratuita, ma da richiedere alla Segreteria Organizzativa Intercontact), su questo nuovo e antico tema, e che avrà luogo domani presso il Centro Congressi S.Elisabetta al Campus Universitario. L’idea, e lo studio, provengono infatti proprio dal Dipartimento di Ingegneria Civile della Facoltà di Ingegneria della nostra Università  (in collaborazione con la Provincia di Parma e col sostegno di numerosi sponsor, tra cui Fondazione Cassa di Risparmio di Parma, Parmalat, Unione Parmense degli Industriali...), sotto il coordinamento degli architetti e docenti Anna Barozzi e Alberto Mambriani.
Una giornata di studio, e con relatori di fama sia italiani che stranieri, ma che è un invito e un inizio, non certo una conclusione. Per dire che uno sguardo storico sul territorio rurale è un’attenzione (e non più una mancanza), e una necessità molto contemporanea.
Ma al territorio, appunto. E già da qui affiora il taglio e la forza di questa prima “tranche” di ricerca.
Per cornice la Provincia di Parma, per oggetto ogni rustico o barchessa, ogni corte o porticato : dopo aver schedato l’esistente, dopo averne restaurato e ripercorso il talvolta ancestrale racconto, ecco già un iniziale, evidente risultato.  L’architettura rurale dialoga profondamente col proprio contorno. Frutto di una radice, e non mattone che isola una residenza umana.
L’edificio è già luogo, oltre che nel luogo, allora. E studiarlo, conoscerlo, interpretarlo, salvarlo, diventa un argomento non ristretto ad un limitato recupero, ma si fa momento di piena tutela dell’intero paesaggio extraurbano.
“Lo studio dei complessi rurali storici - scrivono non a caso in premessa Barozzi e Mambriani - intende porsi come contributo a quello che oggi appare uno dei temi di maggiore interesse strategico della pianificazione territoriale, quello cioè dei metodi possibili di tutela dell’ambiente...in una logica di sviluppo sostenibile delle attività produttive agricole ed industriali, degli insediamenti residenziali, delle infrastrutture di servizio.”
Come dire che occorre fare attenzione alla voglia di nuovo, soprattutto se affianca o demolisce un passato che è ancora presente.
Poi ci sono anche i gesti, certo,  di questa edilizia povera (povera ?) : portali e colonnati, cornici e volte. Funzione non senza ornamento, benchè per ampi spazi pensati magari come stalla. O come fienili. Dalla tessitura muraria “a gelosia”.
Un valore trasparente come un antico ricamo. Si tratta, come è stato fatto e si continua a fare qui, di non perderne il filo.

                                                                                                              Rita Guidi

sabato 22 giugno 2019

CARA ITALIA (ENZO BIAGI) di Rita Guidi


Risultati immagini per enzo biagiBraccia conserte, abito grigio, sorriso gioviale che però è a metà. Perché non arriva fino agli occhi.
Enzo Biagi è così, distaccato con emozione, esattamente come la sua figura, la sua voce e la sua penna.
Gli eccessi mai, neanche quando dice (e come le dice) cose eccessive. La schiettezza sempre, lucida e senza preamboli, intonata alla mai perduta cadenza bolognese.
Se il suo nome fosse adatto, insomma, bisognerebbe coniugarlo in uno stile, perché la sua è continuità più che ripetizione, scelta e non monotonia. Ultimo esempio ? Questo libro : “Cara Italia” (RAI-ERI Rizzoli, 247 pagg., L.29.000). Contraltare di carta che deriva e prosegue nell’omonima trasmissione tivù, ma ovviamente sullo stesso sentiero di un’avventura giornalistica ultradecennale e senza stop all’orizzonte.
  “Cara Italia” è una lettera all’oggi. Senza tralasciare il post scriptum dei ricordi e il nota bene di denunzie e cambiamenti. E’ un’intervista alle città e una fotografia alle (loro) persone. Itinerario tra le differenze che rendono così particolarmente unico il nostro Paese. Un luogo comune (si potrà dire anche così ?) che affiora insieme sfatato e logico dalla sua penna.
Perché in questo tour ci sono Torino e Milano, Venezia, Roma, e certo Napoli ; ma anche le regioni, Marche e Calabria, Sicilia, Toscana, Emilia Romagna ; e ancora le altre coordinate, i diversi confini che inseguono le case dei poeti o i luoghi della fede, ancora un gradino più su di questa Italia a quattro piani.
Il distacco nel “filmare”, l’emozione registrata dalle parole degli altri, Biagi ci racconta così. Traditori fedeli di stereotipi consumati.
Torino ? E’ il buon senso, la signorilità di sangue blu, l’Avvocato. Appartenenza altra e un poco perduta, che affiora nei caffè e nelle chiacchiere che Umberto Eco o Gianni Agnelli informalmente gli affidano.  Ma corre molto passato, fin sulla cima del restaurato Lingotto.
Milano ? Estranea e grande, eppure europea, accogliente e leale. “A volte penso che a Milano ho trovato me stesso” scrive Biagi ; le parole che ricorda di Visconti o Wally Toscanini, o gli confidano Castellaneta e il Cardinale Martini, come prospettiva lunga sul duomo. Città anche di pendolari, però, e di una multietnicità  mai realizzata.
Venezia ? “Non c’è miglior fondale per un’estasi”, è il giustamente citato Brodskij. E Casanova non avrebbe potuto esistere senza di lei. Purchè si faccia attenzione alle gondole : la loro vita, anche se solo “turistica” è legata a quella della laguna e dei canali.
Bologna ? E’ l’umana. Radice che ha per faro San Luca. Humus privilegiato con il quale giocare. A volte anche davanti casa Carducci, come ricorda nel capitolo, un gradino più sopra i territori, che lo vede in viaggio tra le case dei poeti.  “Mi dicevano - scrive, riportando uno dei tanti aneddoti che gli piacciono - che arrivò lì il telegramma che annunciava al poeta il Premio Nobel. Lo lesse alla moglie e commentò : hai visto, Elvira, che non sono un cretino ?”.
Il tour qui si fa più grande, e plana tra scritti e pensieri a Dublino come Recanati, ad Oxford come al Vittoriale o in Russia. Casa Tolstoj : “Tutte le felicità - scrisse - si assomigliano, ma ogni infelicità ha la sua fisionomia.”
Parole calzanti anche per il nostro stivale. O almeno così pare, dietro il sorriso di questo cronista con gli occhi molto lucidi.

                                         Rita Guidi