Il dialetto? Lingua ‘nera’. Ma proprio nel senso troppo
spesso implicitamente negativo di ‘diversa’.
Lingua di colore, preferiremo allora, più garbatamente, e
soprattutto intendendone la piacevole vivacità, la colloquiale suggestione.
(Occorre forse un esempio migliore della nostra
gialloblù?)
Ma è comunque difficile salvarsi (e salvare) da un razzismo
linguistico diffuso, almeno quanto evitare di cadere, al contrario, nella
trappola di snobistici atteggiamenti da WWF.
Equilibri difficili: quello tra dialetto e lingua è un gioco
che è tutto fuorchè chiacchiera. Può
sussurrare tradizioni o gridare autonomismi, perchè il suo vocabolario
raccoglie voci di politica e di costume, di letteratura e di storia oltre a
quelle più squisitamente idiomatiche.
L’etimologia, del resto, ricorda proprio che il termine greco
diàlektos da cui deriva, significa
‘parlata locale’. Come dire (allora...) quella di Atene o invece quella di
Sparta: universi paralleli di una stessa
Ellade...
“Ma pensiamo anche
oggi, ad esempio, al movimento irridentista Còrso che sta rivendicando la
propria autonomia rispetto alla Francia - afferma il Professor Giovanni
Petrolini, docente di Dialettologia del nostro Ateneo, sottolineando appunto
questo primo delicato aspetto della questione - La rivendicazione coinvolge anche la lingua: elevare un dialetto a
dignità di lingua, significa infatti metterlo in concorrenza con la lingua
ufficiale.”
Concorrenza sleale, in genere, quella opposta: spaziando in
versanti meno ‘rivoluzionari’ è opinione diffusa che i dialetti siano forme
scorrette dell’italiano (e non è vero perchè ne sono indipendenti) o che sono
meno ricchi, stabili, regolari ( e non è vero perchè questi tre fattori
dipendono solo dall’uso o dall’abbandono del dialetto stesso).
Lingua ‘nera’. Pregiudizi.
Torniamo allora alla Grecia ( e alla storia ): sarà proprio un diàlektos
(guarda caso quello di Atene) a farsi koinè, lingua comune (guarda caso con l’esclusione di Sparta). Ed
accade lo stesso poi, in Italia: dal latino imbarbarito e distorto, nasce tra
gli altri quel dialetto fiorentino che, fra Tre e Cinquecento diverrà lingua
letteraria comune. Anche se in quel
‘letteraria’ è già la radice di una lontananza da quel parlato spontaneo che
ramifica e progredisce seguendo una propria traccia nel labirinto dei
linguaggi.
Verrà il 1861,
insomma, e verrà la tivù, ma avranno sempre, accanto, altre parole e altra
scrittura.
Ma allora dove coincide (se coincide) dialetto e lingua? O
meglio quando possiamo chiamare lingua un dialetto (motivo d’orgoglio di veneti
o di napoletani, ad esempio)?
“Credo che il
significato letterario sia determinante - spiega ancora Petrolini - E’ più importante chi ha prodotto più
letteratura. Dunque il dialetto napoletano o quello veneto, certo. Ma credo
molto anche nella dignità letteraria del nostro parmigiano, di Zerbini o di
Pezzani. Non definirei davvero minore la
loro produzione.”
Di nuovo le carte si confondono. La radice spontanea deve
dare un frutto letterario. Logica conclusione, in fondo, di una lingua viva.
Ma... è viva ?
“Solo qualche anno fa
avevo calcolato in una sorta di grafico, che col ‘trand’ degli anni ‘80, nel
2030 il dialetto parlato sarebbe totalmente scomparso. Oggi - prosegue
Petrolini - non la penso più così. La vita dei dialetti è una vita intima e
segreta. Certo non credo abbia grandi prospettive in ambito pubblico, se
guardiamo ad orizzonti europei. Ma certamente vivrà finchè ci sarà un poco di
volontà per farlo vivere. Un poco di cuore.”
Dovremmo forse aggiungere un poco di scienza? Sembrerebbe di sì, dal momento che discipline
più recenti, come la sociolinguistica, guardano
proprio al rapporto tra una società e i suoi strumenti espressivi. Tutti
i suoi strumenti espressivi. Ne consegue che il dialetto, a partire da quegli
ambienti scolastici dove era particolarmente ghettizzato, ritrova un poco di
ossigeno.
Primo argine ad un
patrimonio però in gran parte perduto: le parole che restano non guardano certo ai ritmi dei campi o delle
stagioni; a quel mondo contadino che battezzava insieme alle future braccia di
tavole numerose, una parola per ogni gesto.
Qualcuno ha raccolto in un libro bellissimo (“I nomi del
mondo” di Einaudi) quelle parole; talismano per un oggi di single terziarizzati, al quale ne bastano (ed occorrono )
altre. Tanto che il rischio, adesso, per
chi volesse conoscere e parlare il dialetto, sarebbe paradossalmente quello di
non essere capiti...
“I dialetti sono fatti
per comunicare meglio. Si desidera
apprenderlo quando si
pensa sia utile per farsi capire meglio. Oggi, purtroppo - continua
Petrolini - se lo si studia ‘troppo bene’
si rischia, all’opposto l’incomprensione...O, chissà, forse per qualcuno è proprio quello che si desidera...”
Particolarismi eccessivi di luoghi particolari, allora. Cenni
criptici per cui si fa confine ciò che è anche invece permeabile apertura. O, più semplicemente, curiosità: sapevate, ad esempio, che una rivendicazione
classica relativa al dialetto parmigiano
è l’esclusiva proprietà del termine ‘spargnaclèr’? Che, cioè, questo più o meno intraducibile
‘spiattellare’ è solo nostro?
Se la cosa vi fa un poco sorridere in fondo è giusto. Il
colore del nostro dialetto ama il sorriso. Comunica (ci comunica) la risata
semplice dei nostri padri. Possiamo
allora considerarla parola ‘diversa’, o anche soltanto parola, o invece
qualcosa di più?
“E’ soprattutto
qualcosa di più. - conclude Petrolini - E’
il buon senso dei nostri vecchi...E’ un punto di riferimento. E non intendo
solo culturale, ma morale.”
Rita
Guidi