venerdì 8 febbraio 2019

LEGE NUNC VIATOR (Aa Vv) di Rita Guidi


Siamo sempre scappati via, 
perché è davvero da sempre il tempo della fretta.
Senza sosta più che mai, oggi, è evidente ; dove ‘fretta’ è velocità di tutto : reale e virtuale, motori e tecnica, abitudini e idee.
Ma da sempre è la fretta del pensiero : quello che vuole scorrere via, sulla morte. Parola, anche, via via più disusata e dismessa, persino dai poeti.
 Non fa eccezione, in fondo, nemmeno la classicità. Ce lo racconta una bella, accurata, intensa quanto inconsueta (appunto...) pubblicazione, nuova nuova per i tipi de ‘La Pilotta Editrice’.
“Lege nunc viator”, questo il titolo, illustra ‘vita e morte nei carmina Latina epigraphica della Padania centrale’ ed è un oggetto prezioso, a più mani : quelle di Tiziana Albasi, Carlo Betta, Elda Biggi, Adolfo Catelli, Laura Magnani, Claudia Marchioni, Laura Montanini, Cristiana Tarasconi, e dello stesso curatore, Nicola Criniti.      
Studioso (milanese ma) ‘quasi’ parmigiano per la docenza lunga ormai tre lustri  presso la Cattedra di Storia Romana della nostra Università, Criniti, tra i massimi catilinologi ed esperti del Velleiate, riprende così un discorso a lui caro. E per gli altri esemplare : Gabriel Sanders e Giancarlo Susini, tra i massimi esperti mondiali di epigrafia, già a suo tempo parlarono di ‘un modello storiografico innovativo, un modello scientifico che apre una nuova via al lavoro storico ed epigrafico’.
Nel ’70 era l’ “Epigrafe di Ausculum Gn.Pompeo Strabone”, oggi - e tralasciamo gli elenchi - è questo “Lege nunc viator”.
Che è come dire ‘aspetta’. Come dire ‘non scappare via’. ‘Leggi ora viandante’, queste parole lasciate alla vita e così sottratte alla morte. Perché davvero non c’è più alto significato nella (seppure) poesia, spesso, di queste epigrafi, dello sperare una eternità.  Tutta raccolta, sofferta, scavata, nel simbolo commovente e suggestivo che interseca V ed F, quel V(ivi) F(ecerunt) ritratto opportunamente in  copertina.
E lo volevano tutti. L’avrebbero voluto tutti...
Perché comunque “nel mondo romano  - spiega opportunamente nel suo breve saggio su ‘l’idea della morte nel mondo romano pagano’ Laura Magnani - coloro che ebbero la possibilità di esprimersi maggiormente in vita hanno avuto voce più forte anche rispetto alla morte...”
La thanatologa (questa la rara prerogativa della studiosa di quel ‘Gruppo di ricerca parmense’ che come detto ha realizzato il libro) insiste infatti poi nell’illustrare i legami tra sepolcro e ceto sociale :“grandi o piccole che fossero le sepolture, la morte, uguale per tutti, offriva l’ultima occasione per distinguersi...precipuo status symbol...”. 
 Divengono così pietre parlanti, per le ‘assenze’ come per le epigrafi, questi oggetti tombali, letti qui come un documento e un racconto.
Le donne no, o comunque rarissime e poche. “A tutte le donne il silenzio porta abbellimento” è la citazione non a caso ricordata da Laura Montanini che scrive su ‘le donne romane e la morte’.
Nessun dubbio che gridino, invece, queste parole incise : storie piccole o paure grandi, pesano comunque quanto un gemito eterno. 
“Ti sia lieve la terra” è forse per questo il motto che insiste fino all’Ottocento riecheggiando il “S(it) T(ibi) T(erra) L(evis)” romano, come ricorda Cristiana Tarasconi in ‘gli epitaffi di Parma luigina’.
Auspicio che può solo chi immagina forte la vita : sensazione viva di un vivo. Ed è giusto così, dal momento che è proprio questo il metodo con cui “si può ricostruire, in modo a volte anche inedito, il senso quotidiano della vita e della morte ,- come precisa Nicola Criniti nel suo saggio introduttivo ‘acta est fabula : la morte quotidiana a Roma’ - delle speranze e delle angoscie ‘romane’ : attesa e trapasso, sepoltura e liturgie, memoria e ricorrenze, dubbi e paure connesse”.
Criniti prosegue indicando come il pensare alla propria morte sia l’atto insieme più personale e sovversivo ; individua nella dimenticanza (come il Foscolo o come tutti ?) la vera morte per i romani.
Poi si fruga nella memoria : schede e pagine su quella dozzina di esempi (tre proprio di Parma ed uno di Fornovo), che in questa lettura diventano veri, nuovi racconti.
“Io sono colui che resse il peso di incarichi diversi e di tanta fatica... - si legge nell’epitaffio del IV secolo d.C. inciso sul sarcofago che conserva il parmigiano Macrobio e la sua sposa, legata a lui da un amore indissolubile e ‘testimone dei meritati onori’- Imparate o voi che leggete - prosegue - che la gloria si acquista coi fatti : come questo epitaffio comprova, l’aver vissuto degnamente è cosa che non va perduta.”
Una vita (e una storia) che meriterebbe ben più di questo cenno. Come quella, brevissima invece, della piccola Iaia (Santippe), ‘che il Fato logorante nello  spazio di tre anni spense’. L’invocazione chiede luce e sole agli dei, pari almeno alla sua vivacità.
Basterebbe questo, allora, per aprire domande e tentare risposte, come accade nel libro, sull’aldilà del mondo pagano ; e se sia sonno e quiete o tormento e condanna.
Una storia nuova da nuovi racconti. Perché è materia nuova, l’abbiamo detto, l’eterna essenza della morte. Controsenso curioso degli esistenti che, come il libro dimostra, temono l’oblio della scomparsa ma preferiscono dimenticarla.
Sempre, col pensiero, scappare via.
Qualcuno a volte si è fermato. Qualcuno si ferma (‘leggi ora viandante’...). Anche se la sua, come nello splendido stralcio di Petronio che ci piace ricordare, è stata sempre una corsa...
“Ego sic semper et ubique vixi, ut ultimam quamque lucem tamquam non redituram consumerem.”
(“Così ho vissuto sempre e dappertutto, stringendomi alla luce del giorno che passava, pensando è l’ultima, non tornerà, non tornerà mai più.”)

                                    Rita Guidi