mercoledì 9 gennaio 2019

LETTERA A UN ADOLESCENTE (V.ANDREOLI) di Rita Guidi


Se prima era un eskimo, ora è un ombelico forato, ma quel che conta è che si tratta di indossare un silenzio e una protesta. Un muro, a volte, tra il mondo degli uguali (i giovani, il gruppo, gli adolescenti) e quello dei diversi (gli adulti, i genitori, i grandi), in una catalogazione perfettamente speculare e reciproca a seconda della posizione in cui vi ritrovate.
 Ad aprire un varco, a gettare un ponte, ci sono però ora le parole, esperte per affetto e professione e svelte come in un pratico manuale, di Vittorino Andreoli. Celeberrimo psichiatra, scrittore e studioso, che aggiunge al suo arco anche le frecce di padre e di nonno, per aprire un dialogo, non a caso in forma di lettera. “Lettera a un adolescente” (Rizzoli, 142 pagg., euro 9,50), è infatti il titolo di questa sua opera, che si distingue dalle (tante) precedenti (pure legate anche alle tematiche del mondo giovanile) per l’essere intrisa di un minor distacco, di una avvertibile partecipazione.
 “Carissimo…” principia infatti Andreoli, rivolgendosi direttamente a loro, ai nostri ragazzi dai capelli sbiondati o dalle sopracciglia morsicate da un anellino d’argento. E come un vecchio (ci tiene, e lo ripete, ci tiene a questa parola), come un padre o come un nonno, si rivolge a loro spogliato di ogni paternalismo o banalità. Accettando (che sia questa la formula magica?), accettando ribellioni e provocazioni in nome della sovranità ultima dell’amore e del dialogo, ma additando la soglia dei pericoli veri.
 “E’ stato dimostrato che l’intensità dell’essere contro degli adolescenti nei confronti dei padri, dipende anche dal tipo di relazione che avevano con loro nella fanciullezza – scrive Andreoli in uno dei tanti passaggi chiave di questa importante missiva – Ebbene, quanto migliore è stato il rapporto con loro durante l’infanzia, tanto maggiore sarà la fatica del distacco (…) e dunque il figlio deve fare uno sforzo maggiore per separarsi. Se non lo fa rischia di rimanere infantile. Si può continuare a mantenere con i genitori una relazione serena, di obbedienza e ammirazione, ma il prezzo è il blocco della crescita, e la crescita richiede di uscire dall’ambito familiare”.
 Accettarlo, e accettare la magnetica forza del gruppo, e più tardi delle prime “morose/i”, significa allora salvaguardare un dialogo, una continuità affettiva, che al di là delle apparenze non deve mai venir meno tra padri e figli. Per questo la lettera di Andreoli è una lettera pensata per gli adolescenti ma perfetta per i “grandi”. E per questo aiuta a guardare loro e noi, con un equilibrio che scava via superficialità e luoghi comuni.
 Perché è vero. Ci sono pericoli di morte nella quotidianità di un luogo di ritrovo o nel divertimento di un sabato sera. Ma Andreoli ci spiega le motivazioni e l’apparente follia di chi, come i ragazzi, percepisce l’esistenza come un assoluto presente (e dunque senza una consapevolezza, o meglio, una proiezione futura in grado di concretizzare l’idea della morte), come quella di chi, i genitori questa volta, soffocano d’ansia o all’opposto abbandonano a se stessi, i propri cari.
 Tutto è difficile ma nulla è impossibile, insomma, in quell’età (e nei confronti di quell’età) difficile, che ti riempie di brufoli fino all’anima.
 Toccante e magico, in proposito, il ricordo di un incontro dell’autore con una ragazzina seduta solitaria sull’orlo della notte. Due parole e lo sfogo (il dolore per l’abbandono del ragazzo e quello, per disonore, dalla casa paterna) e poi la voglia assecondata di riaccompagnarla a casa. Un problema risolto in un abbraccio…
 “Mi ha detto, quel padre – conclude Andreoli – che non aveva più pace, che voleva cercare la figlia e nello stesso tempo pensava di non dover cedere, per non dimostrare una debolezza che si sarebbe dimostrata ancor più negativa. Sono stato un po’ con loro finchè hanno ricominciato a parlare. Ho sentito la voce del televisore spegnersi e, tra silenzi e qualche parola, è ricominciata la vita”.
 Si può fare. Anche se un lobo è sette volte forato.

                                          Rita Guidi