venerdì 15 febbraio 2019

ANATOMIA DELL'IRREQUIETEZZA (B.CHATWIN) di Rita Guidi


Non sta fermo neanche nella foto. 
Che non è mossa : è lui, Bruce Chatwin, piuttosto, a suggerire anche nella sua più diffusa e celebre immagine (un flash di Lord Snowdon) un perenne andare.
Sotto la faccia le scarpe, i legacci appesi al collo. E lo zaino addosso, nell’inclinare la schiena.
Chatwin cammina. Anche lì.
Dichiaratamente un malato : ipocondriaco da immobilità.   
Ma romanticamente soddisfatto : talismano da tasca, le parole (dai Journaux Intimes) di Baudelaire, “l’horreur du domicile”. 
Che poi e’ la claustrofobia della vita. La certezza dannata che ogni più assoluta novità sarà presto immobile noia. Che un desiderio nomade renderà sempre un poco inquieta la pur preziosa serenità di quanto di bello e tranquillo ci riservano i giorni.
Di questo soffriva, nel pur diffuso ‘contagio’, più di altri.  E forse anche per questo, nota suadente e continua dei suoi scritti, ne cercava i motivi. Scientificamente, quasi, come accade ad esempio nella più recente raccolta, “Anatomia dell’irrequietezza” (nelle inossidabili edizioni Adelphi, 223 pagg., L.25.000).  Dove il corpo, ovviamente, è la vita (non solo la propria). E dove Chatwin, medico impietoso, affonda esperto e soddisfatto tra le pieghe storiche della felicità di ogni andare. O dell’infelicità del rimanere...
Perché - si chiede con una domanda figlia di quell’altra sua più celebre ‘Che ci faccio qui ?’ - divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due ?”
La sua prima risposta ha un chè di genetico e personale: la sezione inziale in quattro capitoli del libro, stralcia infatti pagine a metà tra diario, confessione, ricordo, (abitudini ?). Sùbito, tra le più belle. Racconta che se Bruce è in Inghilterra spesso il nome di un cane, il suo cognome invece deriva forse dall’arcaico chette-wynde, che significa ‘sentiero tortuoso’. Forse : ma gli piace già come un destino. O almeno quanto ricordare la citazione di Pascal, per il quale tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola : non sapersene stare quieto in una stanza.
Bando ai sensi di colpa, Chatwin si arrende, deciso, alla ‘felicità’ : e si vaccina con un robusto paio di scarpe.
E pensare che si occupava tranquillamente d’arte, ma soprattutto ne era lui stesso un collezionista. La sua primissima e ferma gioventù era immobilizzata in una delle più celebri case d’aste londinesi. Bellezza di gesso : anche questa ricorda, come il momento esatto in cui avvertì la smania di liberarsene. “ Verso i trent’anni - scrive - avevo nausea degli oggetti ; e dopo aver viaggiato qualche mese nel deserto fui preso da una sorta di iconoclastia islamica, e credevo in tutta serietà che non ci si dovesse inchinare davanti ai simulacri.”
Questo diventa per lui, improvvisamente, tutto ciò che non sia essenza del cammino : un simulacro. Due torri in toscana o un monolocale londinese, comunque, a cui tornare ( posti dove scrivere, e per non sentirsi totalmente ‘senza’) e poi via ; ogni strada è per dove. Patagonia, Timbuctù...
Soprendente è la sua prosa ‘di viaggio’: asciutta nei racconti come resoconti (quattro quelli qui riproposti) di universi così lontani, che basta la loro diversità a farne lettura. Ma più sorprendente è la sensazione che Chatwin cammina e guarda e scopre, ma è come se sapesse già ciò che lo attende. Il suo viaggio, insomma, non è ricerca di ciò che ha già trovato : piuttosto raccolta, di ciò che ha già comunque seminato e cresciuto. Lui stesso sottolineava che anche questi più fantasiosi e documentaristici frammenti, del resto, erano ‘idee sue’.
E’ allora un ‘breviario’ di Chatwin in tutto, questo, dove è proprio il carattere, la personalità, l’essenza dell’Autore, a raccontarsi più evidente.  E immobile : se non sembrasse un paradosso. Ma non c’è dubbio che dalle letture d’infanzia ai poeti cui guarda come saldo punto di riferimento, c’è un’assoluta fermezza nel cammino delle sue scelte, un’impronta stabile nelle sue direzioni.
Una logica. Molto prossima a quell’altra, che lo spinge ad anatomizzare, appunto, le ragioni (letteralmente) del cammino. O a pensare ad un libro, di cui traccia qui la bozza, sulla necessità nomade che dalla preistoria ci accompagna.
Le ultime pagine, infine, tra l’altro meno scarne di stile, ritraggono, attraverso recensioni o ‘rovine’ (di nuovo luoghi, dunque, case), diversi personaggi e una manìa. Stevenson (poteva non piacergli ?), Lorenz (entrambe da non perdere), fino a mitiche celebrità che vissero a Capri. Figure intessute e lette, anche queste, nel paesaggio.
La manìa è quella dell’arte ; del collezionismo, meglio. Pagine di analisi (impietosa) dattilografate nel 1973, a tanti anni da quel rifiuto lontano di se stesso.
Davvero verso un’altra strada, infinite strade, Chatwin indirizzava ormai la sua raccolta. Ma non è il caso, davvero no, di chiamarlo collezionista.

                                    Rita Guidi