giovedì 31 gennaio 2019

IL CONVERSAZIONALISMO - INTERVISTA A GIAMPAOLO LAI di Rita Guidi


Le parole cambiano con noi. 
Nulla di volontario: non si tratta di imparare il ‘dire’ oltre l’infantile birignao. Piuttosto, consapevoli o no, noi trasmettiamo, parlando,  ben oltre l’informazione-comunicazione-chiacchiera a chi ci ascolta.   Raccontiamo, nel raccontare, il nostro essere. Il nostro essere in quel preciso presente che raccoglie però la nostra intera storia. 
Su questa idea, su questa nostra possibilità e necessità di rivelarci implicito, anche quando...ci lamentiamo del tempo, si basa uno dei più recenti orientamenti della psicanalisi.
E’ il cosiddetto ‘conversazionalismo’, o meglio l’ Accademia delle tecniche conversazionaliste, nata da un’intuizione di Giampaolo Lai, che ne è appunto iniziatore e capostipite...
Una decina d’anni fa ho iniziato a prendere le distanze dalla psicanalisi classica. -  spiega Lai, che dopo una tradizionale formazione medica, si è specializzato in Psicanalisi in Svizzera per poi esercitare la professione, a Milano, seguendo appunto i canoni classici - Mi sono chiesto perchè il linguaggio, nei dialoghi tra paziente ed analista, dovesse essere interpretato solo in senso semantico, badando solo, cioè, al suo significato e contenuto. Mi sono chiesto se invece, indipendentemente da ciò che esprimeva e da chi lo pronunciasse, non rivelasse ‘altro’...”
Una conversazione ‘altra’, dunque...
Sì. Il conversazionalismo è nato proprio così. Per questo abbiamo pensato  di registrare questi dialoghi, trascriverli e poi analizzarli. Abbiamo voluto insomma emancipare le parole: considerarle non più strumenti ma situazioni autonome.”
Ma in che modo la parola può essere letta come ‘situazione autonoma’, verrebbe da dire ‘sopra le  righe’ rispetto al racconto del paziente?
Analizzandola proprio dal punto di vista grammaticale e sintattico;- precisa Lai senza un’ombra di ovvietà nel tono di voce - osservando i soggetti, ma anche i tempi e i modi in cui si declinano i verbi che appaiono nel testo. Una volta ottenuta questa sorta di inventario, finalmente ci saremo occupati più del soggetto psicologico che non delle azioni dell’individuo parlante.”
Prima il ‘come’ del ‘che cosa’, come in una nuova coincidenza tra forma e sostanza. Verrebbe voglia di ‘deviare’ sugli usi più consueti della parola. Su quella dei poeti o dei letterati. Sul loro trasmetterci se stessi e le proprie emozioni...
“E’ ciò che abbiamo pensato (e fatto) anche noi. - sorride Lai - Da non confondere con le indagini analitiche degli anni ‘40; con la ricerca obsoleta della realtà inconscia degli autori. Romanzi, poesie, piuttosto, sono fatti di parole che lo scrittore sceglie appositamente per comunicarci meglio una determinata sensazione.”
Ad esempio?
Ad esempio anche nel mio ultimo libro analizzo i testi del ‘L’Infinito’ di Leopardi e ‘Guido i’vorrei...’ di Dante. Ebbene è evidente che il poeta di Recanati fa grande uso dei verbi nei modi indefiniti: un uso caratteristico in chi voglia comunicare e convogliare indefinitezza e indeterminatezza nell’ascoltatore. Quanto a Dante - prosegue Lai - su quattordici versi c’è praticamente un solo soggetto. Un’assenza che riproduce un’assenza dell’io, tipica della trans ipnotica, in questo caso dell’incantamento.”
Vaghezza e sogno, dunque, non patologia...
No,no. Ripeto. Quest’ottica è obsoleta...”
Ma anche questo può essere pensato come letteraria conferma dei vostri studi...E dunque ci riconduce alle patologie...
Certamente. Tenendo presente che si parla di sofferenza e non di malattia, - precisa Lai -  se vogliamo tornare, ad esempio, su chi fa grande uso di predicati al modo infinito, che è un modo legato alla non-determinazione nè di persona nè di genere, possiamo pensare che sia un soggetto caratterizzato da una certa vaghezza e incertezza psicologica.”
Possiamo definirla una ... diagnosi grammaticale?
Se vuole...Senz’altro però è più libera da interpretazioni soggettive. Il testo è lì, osservabile, ‘scientifico’, confrontabile. Pronto al ‘salto’: dal punto di vista grammaticale a quello psicanalitico.”
D’accordo per la diagnosi, ma la terapia?
Si basa anch’essa sulla conversazione. Se vogliamo tornare al soggetto di prima, un primo passo sarà nell’aiutarlo a diminuire l’uso degli infiniti semplicemente non usandone nel parlare con lui.”
Parole come diagnosi, parole come terapia, ma allora possiamo pensare anche a parole come prevenzione? Quando dovremmo preoccuparci delle nostre parole? Quali i campanelli d’allarme?
Preoccupiamoci se noi o chi ci sta accanto non usa mai verbi al condizionale o al futuro. Questi sono infatti verbi funzionali, attraverso cui ognuno di noi esce dalla necessità del presente o del passato per accedere al mondo futuro. Non farne uso e’ indice di scarsa progettualità, di un soggetto cupo, depresso.”
Meglio che cosa, allora?
Meglio l’imperfetto - suggerisce Lai - Lo si usa spesso nelle situazioni di innamoramento, di vaghezza, di gioco, di sogno...Lo preferisca - sorride - al passato remoto che, invece, irrigidisce l’ascoltatore, quando vuole ottenere qualcosa...”
D’improvviso la parola torna ad essere un poco magica, dimentica di ogni sottintesa scientificità. O forse così comunque è, ed è sempre stata...
Cos’è la parola per me? - conclude Lai - Senza alcun dubbio, divina. Per questo, anche nel mio lavoro l’ho preferita autonoma piuttosto che ancella della mente. E’ l’unica cosa divina nel mondo. Tutto il resto è natura. Tutto il resto lo condividiamo con la natura e gli animali. La stessa Bibbia dice che in principio era il Verbo...”
Le parole cambiano con noi, l’abbiamo detto. E ci rappresentano. Sarebbe bello però poter dire che noi siamo le parole...

                                         Rita Guidi