Rilancia contro il
tappeto vincente d’Occidente, contro i dadi truccati di ogni verità, ma è un
azzardo costoso fino alla riprovazione, o agli sguardi dubbiosi che la gente,
ora, rivolge a lui. Peter Handke. Autore e scrittore, ma questa volta
soprattutto uomo e intellettuale, alle prese con un viaggio difficile quanto
gli appunti che ci offre come le più spietate delle pagine.
Iugoslavia (ex), marzo
e aprile 1999. Milosevic e i serbi. La guerra Nato contro lo sterminio e le
bombe. Ma nella Chaville di Handke, illuminata dagli echi metropolitani della
vicina Parigi, sembra che nessuno, salvo lui, senta il rumore dei tanti aerei dal
carico mortale che decollano proprio da lì. Sembra che tutto il mondo con il
suo drink in mano (non canta così anche il nostro Ligabue?) preferisca di gran
lunga il piacere di brindare alla consapevolezza di guardare su e guardare
fuori.
Per questo parte. E
per questo titola il suo irriverente taccuino “Un disinvolto mondo di
criminali” (Einaudi, 84 pagg., 10 euro). Diario drammatico che riprende la
riflessione già oggetto di feroci critiche di “Un viaggio d’inverno” e
“Appendice estiva a un viaggio d’inverno”. Lungi dal ritrattare le sue
posizioni, dolorosamente insensibile agli attacchi anche verbali dei quali lo
fa oggetto chi lo riconosce, Handke conferma anzi senza appello il suo no a
certe logiche da superpotenza, alla voce monocorde dei mezzi di informazione,
all’ovvia adesione, insomma, ad una imposta (e unica) verità.
Quattro giorni prima
(dal 30 marzo al 2 aprile) e sette dopo (dal 23 al 29 aprile) in questo vicino
Est frammentato e martoriato, gli bastano e avanzano per convincerlo che
l’aggettivo “chirurgico” non serve a rendere diverso il risultato di morte di
un bombardamento. E che insomma nessuna bomba, per nessuna logica, potrà mai
essere giusta, necessaria, santa.
“Strano come proprio
la disintegrazione degli utensili – scrive ricordando la sosta alla fabbrica
Zastava di Kragujevac - dei banchi da lavoro, delle tenaglie, delle morse,
delle barre, dei chiodi e delle viti (spianati e spezzati persino gli elementi
più piccoli) mi abbia colpito più di quella dei grandi macchinari. Era come se
con questi utensili le criminali potenza celesti avessero annientato in tutto
il circondario il lavoro, vale a dire ogni cooperare ed esistere (l’esserci)
per un tempo indeterminato.”
E indeterminata è
davvero la vita che, in queste parole e sensazioni come ammucchiate nello zaino
di un corrispondente dal fronte, gli sopravvive intorno. Perché appunto ci sono
le bombe…
“Le bombe…così
repentine e dirompenti nello spazio (e al tempo stesso annientatrici dello
spazio) – annota in una drammatica notte vissuta sulla via del ritorno
all’Hotel Metropol di Belgrado – così tangibili e randellanti che paroline
aggiunte come subitaneo o improvviso fanno un effetto di calma e prolissità. E
così attacco aereo dopo attacco aereo,
per tutta quanta la notte. Impossibile abituarsi. Ed è chiaro che quelli
esposti al frastuono giorno dopo giorno devono diventare balbuzienti, non
soltanto i bambini.”
E le bombe cadono sui
ponti e sulle strade, sugli aeroporti e sulle ferrovie. Una precisione a
bassissimo margine di errore, guidata da una “logica secondo la quale – accusa
di nuovo Handke - possono essere
bombardati anche un campo di mais e un pollaio perché mais carne di pollo e
uova servono da vettovaglie per la soldataglia.”
Il disagio forte è
sentire il decollo di quegli aerei esattamente dietro casa (“l’aeroporto
militare dietro la collina dove abito (…) Nessuno sembra sentirli?”). Che pure
è la sua casa… “Il mio centro del mondo
è dove è mia figlia. Il mio tavolo è qui a Chaville, sono qui le mie matite, i
miei alberi quando li attraversa il vento e quando di tanto in tanto regna una
certa tranquillità”.
Una certa
tranquillità: quella che ti fa pensare di poter credere che possa scoppiare la
pace così come scoppiano le bombe.
Rita
Guidi
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