Laj
Chimel, in lingua K’iche’, traduce con un appellativo così dolcemente modesto
una terra alta e millenaria...
“Chimel è un posto dove le nuvole ondeggiano pigre al di
sopra dell’umida montagna. Il colore delle vette è azzurro scuro, e quando il
cielo si apre, limpido e severo, il mondo appare come nuovo...”
Questo è il Guatemala di Rigoberta Menchù. O meglio quello
che ha nel cuore. Il Paese dove ha lasciato l’ombelico : radice nativa dal
peso immenso nella tradizione maya, e per questo sottolineata con forza dagli
autori delle brevi e belle righe introduttive del dolente e intenso volume che
di lei la Giunti pubblica ora, “Rigoberta, i Maya e il mondo” (con la
collaborazione di Dante Liano e Gianni Minà).
Fra lacrime e sorrisi, - scrive infatti Humberto Ak’abal
- (Rigoberta) ci conduce al momento del
suo ritorno a questo pezzettino di terra dove aveva lasciato l’ombelico...”
“Voce di voci, tempo dei tempi, la voce di Rigoberta non
parla degli indios maya, ma dagli indios - insiste Eduardo
Galeano - E con loro(...)il lettore si addentra pagina dopo pagina nei misteri
della terra da cui Rigoberta è stata generata. Lì il suo ombelico è stato
bruciato e sotterrato, perché mettesse radici...”
Certo così è stato, e il libro ne è testimonianza più che
racconto. Perché solo la linfa di quelle radici, giustifica la forza di questa
donna fragile. Piccoletta e scura, come dice lei, con la faccia da povera, la
faccia da Maya, la faccia da indigena, Rigoberta è rimbalzata agli occhi del
mondo quando ha vinto il Premio Nobel per la Pace, nel 1992. Riconoscimento internazionale di un percorso
paziente, umile e infinito, fatto di poesie, di esilio, di parole e attese nei
corridoi dell’ONU, per dar voce all’anima antica del suo Paese diviso.
Nulla di cui montarsi la testa : se c’è un termine per
definire la cadenza del suo racconto, il prima e il dopo dell’indubitabilmente importante
evento, questo è “equilibrio”. Viatico per la saggezza, del resto, nella tradizione
del suo popolo.
Il Nobel, allora, è per lei coscienza di voler testimoniare
anche questo modo di essere ; pur ben sapendo, scrive, che gli avi ci
hanno insegnato che una sola persona non fa la storia. Il Nobel, ancora, è per lei certezza di
speranza, cenno di mutamento, considerazione più attenta dei problemi delle
cosiddette minoranze, occasione di maggior ascolto ; anche se si augura che
questo non dipenda dal solo fatto - scrive - che così va il mondo, in cui un
attestato, un diploma è quello che ci vuole per essere presi in considerazione.
Insomma, e comunque, qualcosa è cambiato, nel bene e nel male
(perché in ogni cosa è racchiuso un po’ dell’uno e un po’ dell’altro) dopo
quella data. Alla dogana, ad esempio, non la perquisiscono più (almeno finchè
non ricorda il suo titolo...) in modo “molto grossolano” : da rifare le
valigie insomma. Come accade, spesso, agli altri indios. Rigoberta lotta anche
per questo, per questi piccoli fastidi di piccolissima umanità. E per il fatto
che basterebbe poco per cambiare tanto. Ad esempio iniziando a comprendere chi sceglie
di non seguire la corrente più forte, nell’oceano del mondo.
I Maya pensano che l’uomo non sia fatto per
comprare-vendere-guadagnare. Anche per questo innalzavano templi fino al cielo,
anziché coniare monete dalle loro ricche miniere d’argento.
E ci sono popoli e uomini, che, come loro, hanno un’altra
idea di povertà. Forse non sono tantissimi, e per questo qualcuno li chiama
minoranze. Eppure non sono ( e non devono essere) specie protette. Non sono
farfalle.
“Non siamo farfalle - scrive forte la Menchù - Perché non si
accetta l’idea che i popoli indigeni potrebbero, a loro volta, insegnare
qualcosa al mondo di oggi ?”
E’ questo il mondo nuovo che sogna di vedere sotto il cielo
limpido di Laj Chimel.
Rita
Guidi
Nessun commento:
Posta un commento