Duecento pagine di formule
per risolvere un enigma di trecento anni.
Andrew Wiles, inglese di Cambridge trapiantato negli States,
ha dimostrato l’Ultimo Teorema di Fermat, guadagnandosi un posto al suo fianco,
nella storia del pensiero matematico.
Venti righe in cronaca per pochi istanti urlati dal tam-tam
dei mass-media, e poi più o meno il silenzio ; anche in occasione del
Premio che Wiles ha ricevuto nel giugno di quest’anno, a sancirne la vittoria.
Basterebbe questo, una sottrazione alla superficialità, a
giustificare l’uscita di un libro sulla vicenda. Ma il volume
“L’Ultimo teorema
di Fermat” di Simon Singh (pubblicato ora da Rizzoli), è qualcosa di
infinitamente di più.
Speculazione matematica che si fa letteratura, e fascinoso
invito a scoprirne le armonie, il romanzo (sì, romanzo) taglia in diagonale la
storia di questo pensiero scientifico. Che è purissimo come la poesia e la
fantasia ; e attraente fino all’ossessione. Consentendo ai profani di
capirne il perché.
Simon Singh è un giornalista scientifico con la “garanzia” di
un dottorato in fisica delle particelle. Di Cambridge anche lui, sceglie di
raccontare la splendida avventura del suo concittadino, con parole esatte ma
accessibili, chiare ma rigorose. Il che significa che non mancano le formule,
ma che possiamo anche dimenticarci di dar loro un’occhiata, in appendice.
Capiremo lo stesso i pensieri e la tensione, la genialità e le follie di questo
mondo di uomini avvinti dai numeri come dall’assenzio. Perché sembra davvero che vi sia
un’ossessione di bellezza, una vicinanza alla divinità, in chi guarda
all’infinito universo delle unità.
L’unità : non era
forse questo il dio di Pitagora ? Ed era un dio in cui avere fede :
chiamerà filosofia questa nuova religione, il più puro amore per la conoscenza.
Un dio da scoprire : equazioni
nascoste nel caos apparente della Natura e della musica. Un dio spietato,
anche, cui immolare una vittima sacrificale : il discepolo Ippaso fu annegato
per aver individuato un numero
irrazionale. Irrazionale e dunque, per Pitagora, “brutto” ;
dannatamente estraneo a quella bellezza intera o frazionaria delle unità, che
agli occhi del filosofo greco poteva spiegare tutti i fenomeni del mondo.
La morte di Ippaso è per questo “giustizia”, ben più che paradosso di un genio, per l’essere il
sacrificio di un gallo ad Esculapio : pensiero malato da purificare nelle
proprie “dogmatiche” certezze. Come quelle del suo celeberrimo teorema, ad
esempio. Splendidamente semplice, e assolutamente vero. Senza eccezioni di
tempo o di spazio, come si conviene a quanto in matematica è bello, assodato e
dimostrato. Perché i quadrati costruiti sui cateti sono e saranno sempre uguali
a quello costruito sull’ipotenusa. Lo sanno i bambini come lo sapeva Wiles e
Fermat.
Però (e non è un caso che la diagonale del libro affondi fino
alle radici classiche di questa scienza) quello che forse Fermat sapeva e Wiles
fino all’altro ieri no, era che al
quadrato non è mai possibile sostituire, ad esempio, un cubo. Questo dice il
Teorema di Fermat. Genio birichino come il secolo, il Seicento, in cui visse,
che si dilettava di matematica e che per questo ci ha lasciato un tesoro prezioso
di tracce, non sempre, appunto, dimostrate. O meglio : lui, la soluzione
la conosceva, solo che non sempre aveva voglia di scriverla o più semplicemente,
gliene mancava la carta...
“Dispongo di una meravigliosa dimostrazione - scriveva,
infatti, testualmente Fermat, a fianco del suo teorema - che non può essere contenuta nel margine
troppo stretto della pagina”. E una
buona fetta della scandalosa, ossessiva, splendida matematica, prende vita da
questa frase, da questa sfida, da questa provocazione.
Funzionario e burocrate del diciassettesimo secolo, Pierre
Fermat aveva del resto e da tempo, fama di provocatore. Principe dei Dilettanti
(ma per qualche contemporaneo già così grande da dover essere considerato un
professionista), amava pubblicare i problemi senza rivelarne la soluzione,
infischiandone del riconoscimento dei dotti, e proseguendo indisturbato sulla
sua strada. Timido e solitario, per Cartesio era uno sbruffone, ma per Pascal
un amico e collega : insieme daranno vita ad una nuova branca della
matematica, la teoria delle probabilità, quasi certamente attratti dalle
questioni sollevate dal gioco d’azzardo.
Vita e pensiero si intersecano, quindi, di nuovo, in questo
racconto di Singh. Biografie come rette parallele alla storia del pensiero
scientifico e dell’umanità. Il Seicento, come il mondo classico, letti sotto
(questi) altri angoli, accorciano le distanze col presente. Rivelano le radici
continue con la nostra attualità.
Anche questo deve aver pensato Wiles, al desiderio di
appartenenza ad una infinita storia, quando ancora bambino scopre in un libro la
sfida ancora intatta di Fermat, e la trasforma nel sogno di una vita. Da quel
momento tutto, come nel libro, diventa un “attraverso”. E i tre secoli seguenti
diventano per lui imprescindibile motivo di studio. Trecentocinquantanove anni
di errori, ma non di vere sconfitte. Come eroi romantici, i nomi e le menti che
nel Sette e Ottocento si sono cimentate su questo rompicapo comprensibile nei presupposti e inespugnabile
nelle soluzioni, hanno comunque aggiunto qualcosa al rigore poetico di questo
universo.
Su fogli insufficienti ad eguagliare Fermat, a innumerevoli
altre teorie hanno però dato vita. E magari hanno rischiato o perso la propria.
Le loro storie sono tutte qui, intrise di umanità e di scienza. C’è il ciclope Eulero, cieco però, ad un passo dal
traguardo ; la genialità incompresa (perché femmina) della Germain ;
il rifiuto superbo ( o pauroso) di Gauss ; il contributo determinante delle
ricerche di Galois, scritto tragicamente la notte prima del duello che presentiva
lo avrebbe visto soccombere ; e ancora Wolfskehl, che in un’altra tragica
notte rinuncia al previsto suicidio proprio nell’appassionarsi alla soluzione
di questo enigma, davvero vitale, davvero mortale. Per questo, nel 1908, indirà
il premio che Wiles ha riscosso l’estate scorsa. E cioè oggi, in un mondo
governato da potentissimi computer, che però paradossalmente non gli servono
affatto. Non è il supercalcolo, ma la bellezza di un’intuizione (come teorizzò
Poincarè), ciò che occorre per risolvere una sfida che ha a che fare con
l’infinito dei numeri. Praticamente poesia.
Wilde la cerca innanzitutto isolandosi. Gesto inconsueto
nell’attualità accademica, che Singh racconta quotidianamente intenta a
condividere i propri risultati all’ora del te’, fosse pure per posta
elettronica.
Una soffitta, una serie di lezioni e di
pubblicazioni-copertura, una moglie con cui confidarsi, e sette anni di
ininterrotto lavoro sono quello che gli serve. Che gli è servito, meglio, a
soddisfare un sogno di bambino e una sfida infinita.
Il suo margine è lungo duecento pagine, che riporta passo
passo su di una lavagna, in una conferenza storica, il 23 giugno del ‘93 a
Cambridge (prima cioè di un lungo periodo di revisione ad una drammatica imperfezione
individuata da altri esperti nel terzo capitolo). Utilizza tutto e tutti, in
una geniale e ritrovata unità : quelle teorie affascinanti, apparentemente
così lontane dal pitagorico, classico “triangolo”, e che il libro ci avvicina a
conoscere, come le ricerche più avanzate e moderne. Teorie delle probabilità,
dei giochi o dei gruppi ; equazioni ellittiche e modulari. Soprattutto queste,
o meglio quelle di Tanyama e Shimura, avventura nell’avventura anche questa dei
due amici e studiosi giapponesi che termina con il drammatico suicidio del
primo. Giovani quanto sembra esserlo il pensiero matematico (e anche in questo
il quarantenne Wiles fa eccezione) i due geniali ricercatori elaborarono teorie
nel campo delle forme modulari. Universo nel quale dobbiamo spendere tutta la
nostra fantasia per pensare ad una quarta dimensione, chè questo prevedono. Wiles
si abbevera anche a questo assenzio, trascinando Fermat in una poesia che abita
tre secoli avanti.
E con un “Io mi fermerei qui” concluderà, quindi, tra
gli applausi, il suo storico ragionamento. Fermandosi, questo è certo, alla
soluzione.
Resta il dubbio, però, (qualcuno vuole che resti il dubbio)
che quella sia sì una soluzione. Ma che sia solo una.
Perchè Fermat non poteva certo prevedere né utilizzare tutto
questo. Il margine del suo foglio, insomma, anche se fosse stato più grande,
non avrebbe potuto comunque raggiungere il nostro Novecento.
Rita Guidi
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