Una frescura vicina, eppure lontanissima dall’afa. Oppure,
d’inverno, la neve da pupazzi e slittini, rifugi e laghi ghiacciati.
L’orizzonte di un giorno, una qualsiasi domenica dell’anno, o l’appuntamento di
sempre, d’estate, con gli amici.
C’è un pezzo
d’Appennino che, da sempre, è stato tutto questo. Qualche ora per tutti, o la
vita per qualcuno. Pochi, certo, ma come importanti e assoluti testimoni più
che di un mondo che va scomparendo, di una realtà che non vuole, non può e non
deve essere senza domani.
E invece, adesso, contro tutto questo, c’è un nemico più forte di qualsivoglia malinteso
senso del ‘progresso’. Forte come questa nostra montagna, è la montagna stessa,
che fragile di ferite e di soprusi antichi, scava un enorme confine tra se
stessa e il futuro, il ricordo, la speranza.
La montagna frana, a Corniglio.
Crolla con la forza di
un’antica e leggendaria maledizione sui terreni e le case, sul lavoro e le
notti d’estate di chi aveva voluto rimuovere come un incubo non proprio questa
tremenda possibilità. Perché è un incubo non nuovo : da queste parti, dove
ancora c’è il tempo di ascoltare le parole e i racconti, sguardi di più di un
qualche vecchio giovanotto, indicano composti la stessa ferita negli stessi
luoghi. E ricordano un asilo negato a due viandanti che si chiamavano S.Lucio e
S.Amanzio, e che per questo promisero altrettanto dolore a questa terra.
Era il 1902, allora, e non c’erano le residenze nuove dei
villeggianti, gli enormi edifici per la stagionatura, le strade. Ma la forza
d’urto impressionante e inarrestabile fu esattamente la stessa. Indifferente
alla già faticosa vita dell’uomo che strappa la vita da queste parti, la terra
si ruppe in rughe e crepe profonde, rotolò fino al torrente, creò laghi e
timori. Identica ad oggi. Esattamente. Ed è questo uno dei dati che sorprende,
ad esempio, nella relazione in forma di video presentata nei giorni scorsi a
Roma alla Commissione per la Prevenzione degli eventi a grande rischio.
Realizzata dal CNR, dall’Unità Operativa della Regione Emilia Romagna del
Gruppo Nazionale Difesa Catastrofi Idrogeologiche e dalla Provincia di Modena,
riassume, per gli addetti ai lavori, i due anni di cronaca di questa tremenda
(e un po’ voluta e un po’ dimenticata) situazione. Contraltare tecnico ad
un’altra, davvero toccante realizzazione, sulla stessa tragedia : si
tratta di “Lettera da Corniglio” di Giovanni Martinelli. Autore appartenente al
‘Cinema Indipendente Italiano’, ma anche coordinatore del Centro Studi Terre
Alte ; legato, dunque, profondamente alla cultura del territorio, cui
dedica questa partecipata opera che ha già meritato vasto apprezzamento e la
partecipazione (imprevista) a più di un Festival Cinematografico.
E basta già la copertina : un Cristo gettato su quella
terra, il castello del paese lontano, sullo sfondo. Eppure nulla di architettato ; ciò che resta,
invece, dall’antico cimitero, in parte sgombrato al progressivo cedere della
montagna. Un dolore lento e paziente, come quello della gente del posto, che
parla (senza grida) in apertura di questo così particolare cortometraggio. E’
il racconto duro e riservato di ciò che hanno perduto, mentre la macchina da
presa trascorre sugli affreschi della ‘Passione’ di Madoi nella chiesetta di
Sesta Superiore. Come dire dell’arte di questo Appennino, della sua vitalità
sotto la durezza dei giorni, dietro l’accettazione della fatica.
Una vitalità che ha fatto definire Corniglio regina della
mezza montagna dal poeta Attilio Bertolucci, che tanto appartiene alla vicina
Casarola, e che qui, in questa tormentata ‘lettera’, in prima persona parla. E
come lui il figlio Bernardo, che ricorda di aver composto qui i suoi primi
versi, pensato i primi film. E che, aggiunge, quella frana non vuole, non
riesce a vederla.
Rimozione condivisa dallo stesso Martinelli, che ci confessa
di aver utilizzato prima i filmati di repertorio e solo più tardi aver ceduto
alla necessità di un sopralluogo.
Perché è un vero tormento, per chi anche per poco è stato
avvezzo a questi luoghi. Il dolore che
gonfia gli occhi, è quello di chi vede i propri luoghi diversi, lacerati,
distrutti. Di chi non riesce più a far coincidere i propri ricordi con la
realtà : cancellati. Ieri per sempre diverso dall’oggi ; e noi stessi
improvvisamente un poco più vecchi, un poco altri.
Sofferenza, tra
l’altro, che somiglia ad una concessione all’egoismo, nel vedere piuttosto
serrande abbassate su muri paurosamente inclinati ; e strade dalle quali
nessuna automobile condurrà più nessuno al lavoro.
O forse sì. La montagna, nel male ma anche nel bene, è forte.
E le parole di Attilio e di Bernardo, della gente del posto, di chi anche solo
per un’ora ha vissuto qui, scrivono proprio una lettera alla speranza.
Occorrerà tanto tempo, tanti soldi, tanto lavoro, tanto buon
senso. (E già il discorso è complesso...). Ma più e prima di tutto la voglia di
non perdere. Di non lasciare che la terra scavi con indifferenza e
nell’indifferenza un solco mortale per un luogo che è stato e che è anche
nostro.
“Ci vuole un grande
impegno - afferma infatti Bernardo Bertolucci - per fermare questa frana proprio nel momento in cui rischia di
trasformarsi anche in una frana simbolica.”
E’ passato quasi un secolo dal 1902. La speranza è che, oggi,
non ne debba passare un altro, prima che tutto questo sia solo un brutto
ricordo nelle parole che qualche vecchio giovanotto vorrà qui raccontare.
Rita
Guidi
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