perché è davvero da sempre il
tempo della fretta.
Senza sosta più che mai, oggi, è evidente ; dove
‘fretta’ è velocità di tutto : reale e virtuale, motori e tecnica,
abitudini e idee.
Ma da sempre è la fretta del pensiero : quello che vuole
scorrere via, sulla morte. Parola, anche, via via più disusata e dismessa,
persino dai poeti.
Non fa eccezione, in
fondo, nemmeno la classicità. Ce lo racconta una bella, accurata, intensa
quanto inconsueta (appunto...) pubblicazione, nuova nuova per i tipi de ‘La
Pilotta Editrice’.
“Lege nunc viator”,
questo il titolo, illustra ‘vita e morte
nei carmina Latina epigraphica della Padania centrale’ ed è un oggetto
prezioso, a più mani : quelle di Tiziana Albasi, Carlo Betta, Elda Biggi,
Adolfo Catelli, Laura Magnani, Claudia Marchioni, Laura Montanini, Cristiana
Tarasconi, e dello stesso curatore, Nicola Criniti.
Studioso (milanese ma) ‘quasi’ parmigiano per la docenza
lunga ormai tre lustri presso la
Cattedra di Storia Romana della nostra Università, Criniti, tra i massimi
catilinologi ed esperti del Velleiate, riprende così un discorso a lui caro. E
per gli altri esemplare : Gabriel Sanders e Giancarlo Susini, tra i
massimi esperti mondiali di epigrafia, già a suo tempo parlarono di ‘un modello storiografico innovativo, un
modello scientifico che apre una nuova via al lavoro storico ed epigrafico’.
Nel ’70 era l’ “Epigrafe
di Ausculum Gn.Pompeo Strabone”, oggi - e tralasciamo gli elenchi - è
questo “Lege nunc viator”.
Che è come dire ‘aspetta’.
Come dire ‘non scappare via’. ‘Leggi ora viandante’, queste parole lasciate
alla vita e così sottratte alla morte. Perché davvero non c’è più alto
significato nella (seppure) poesia, spesso, di queste epigrafi, dello sperare
una eternità. Tutta raccolta, sofferta,
scavata, nel simbolo commovente e suggestivo che interseca V ed F, quel V(ivi)
F(ecerunt) ritratto opportunamente in
copertina.
E lo volevano tutti. L’avrebbero voluto tutti...
Perché comunque “nel
mondo romano - spiega opportunamente
nel suo breve saggio su ‘l’idea della morte nel mondo romano pagano’ Laura Magnani
- coloro che ebbero la possibilità di
esprimersi maggiormente in vita hanno avuto voce più forte anche rispetto alla
morte...”
La thanatologa (questa la rara prerogativa della studiosa di
quel ‘Gruppo di ricerca parmense’ che come detto ha realizzato il libro)
insiste infatti poi nell’illustrare i legami tra sepolcro e ceto
sociale :“grandi o piccole che
fossero le sepolture, la morte, uguale per tutti, offriva l’ultima occasione
per distinguersi...precipuo status symbol...”.
Divengono così pietre
parlanti, per le ‘assenze’ come per le epigrafi, questi oggetti tombali, letti
qui come un documento e un racconto.
Le donne no, o comunque rarissime e poche. “A tutte le donne il silenzio porta
abbellimento” è la citazione non a caso ricordata da Laura Montanini che
scrive su ‘le donne romane e la morte’.
Nessun dubbio che gridino, invece, queste parole
incise : storie piccole o paure grandi, pesano comunque quanto un gemito
eterno.
“Ti sia lieve la terra”
è forse per questo il motto che insiste fino all’Ottocento riecheggiando il
“S(it) T(ibi) T(erra) L(evis)” romano, come ricorda Cristiana Tarasconi in ‘gli epitaffi di Parma luigina’.
Auspicio che può solo chi immagina forte la vita :
sensazione viva di un vivo. Ed è giusto così, dal momento che è proprio questo
il metodo con cui “si può ricostruire, in
modo a volte anche inedito, il senso quotidiano della vita e della morte ,-
come precisa Nicola Criniti nel suo saggio introduttivo ‘acta est fabula :
la morte quotidiana a Roma’ - delle
speranze e delle angoscie ‘romane’ : attesa e trapasso, sepoltura e
liturgie, memoria e ricorrenze, dubbi e paure connesse”.
Criniti prosegue indicando come il pensare alla propria morte
sia l’atto insieme più personale e sovversivo ; individua nella
dimenticanza (come il Foscolo o come tutti ?) la vera morte per i
romani.
Poi si fruga nella memoria : schede e pagine su quella
dozzina di esempi (tre proprio di Parma ed uno di Fornovo), che in questa
lettura diventano veri, nuovi racconti.
“Io sono colui che
resse il peso di incarichi diversi e di tanta fatica... - si legge
nell’epitaffio del IV secolo d.C. inciso sul sarcofago che conserva il
parmigiano Macrobio e la sua sposa, legata a lui da un amore indissolubile e
‘testimone dei meritati onori’- Imparate
o voi che leggete - prosegue - che la
gloria si acquista coi fatti : come questo epitaffio comprova, l’aver
vissuto degnamente è cosa che non va perduta.”
Una vita (e una storia) che meriterebbe ben più di questo
cenno. Come quella, brevissima invece, della piccola Iaia (Santippe), ‘che il Fato logorante nello spazio di tre anni spense’. L’invocazione
chiede luce e sole agli dei, pari almeno alla sua vivacità.
Basterebbe questo, allora, per aprire domande e tentare
risposte, come accade nel libro, sull’aldilà del mondo pagano ; e se sia
sonno e quiete o tormento e condanna.
Una storia nuova da nuovi racconti. Perché è materia nuova, l’abbiamo detto, l’eterna essenza della
morte. Controsenso curioso degli esistenti che, come il libro dimostra, temono
l’oblio della scomparsa ma preferiscono dimenticarla.
Sempre, col pensiero, scappare via.
Qualcuno a volte si è fermato. Qualcuno si ferma (‘leggi ora
viandante’...). Anche se la sua, come nello splendido stralcio di Petronio che
ci piace ricordare, è stata sempre una corsa...
“Ego sic semper et
ubique vixi, ut ultimam quamque lucem tamquam non redituram consumerem.”
(“Così ho vissuto
sempre e dappertutto, stringendomi alla luce del giorno che passava, pensando è
l’ultima, non tornerà, non tornerà mai più.”)
Rita
Guidi
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