Che non è mossa : è
lui, Bruce Chatwin, piuttosto, a suggerire anche nella sua più diffusa e
celebre immagine (un flash di Lord Snowdon) un perenne andare.
Sotto la faccia le scarpe, i legacci appesi al collo. E lo
zaino addosso, nell’inclinare la schiena.
Chatwin cammina. Anche lì.
Dichiaratamente un malato : ipocondriaco da
immobilità.
Ma romanticamente soddisfatto : talismano da tasca, le
parole (dai Journaux Intimes) di
Baudelaire, “l’horreur du domicile”.
Che poi e’ la claustrofobia della vita. La certezza dannata
che ogni più assoluta novità sarà presto immobile noia. Che un desiderio nomade
renderà sempre un poco inquieta la pur preziosa serenità di quanto di bello e
tranquillo ci riservano i giorni.
Di questo soffriva, nel pur diffuso ‘contagio’, più di
altri. E forse anche per questo, nota
suadente e continua dei suoi scritti, ne cercava i motivi. Scientificamente,
quasi, come accade ad esempio nella più recente raccolta, “Anatomia dell’irrequietezza” (nelle inossidabili edizioni Adelphi,
223 pagg., L.25.000). Dove il corpo,
ovviamente, è la vita (non solo la propria). E dove Chatwin, medico impietoso,
affonda esperto e soddisfatto tra le pieghe storiche della felicità di ogni
andare. O dell’infelicità del rimanere...
“Perché - si chiede
con una domanda figlia di quell’altra sua più celebre ‘Che ci faccio
qui ?’ - divento irrequieto dopo un
mese nello stesso posto, insopportabile dopo due ?”
La sua prima risposta ha un chè di genetico e personale:
la sezione inziale in quattro capitoli del libro, stralcia infatti pagine a
metà tra diario, confessione, ricordo, (abitudini ?). Sùbito, tra le più
belle. Racconta che se Bruce è in Inghilterra spesso il nome di un cane, il suo
cognome invece deriva forse dall’arcaico chette-wynde,
che significa ‘sentiero tortuoso’. Forse : ma gli piace già come un
destino. O almeno quanto ricordare la citazione di Pascal, per il quale tutta
l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola : non sapersene stare
quieto in una stanza.
Bando ai sensi di colpa, Chatwin si arrende, deciso, alla
‘felicità’ : e si vaccina con un robusto paio di scarpe.
E pensare che si occupava tranquillamente d’arte, ma soprattutto
ne era lui stesso un collezionista. La sua primissima e ferma gioventù era
immobilizzata in una delle più celebri case d’aste londinesi. Bellezza di
gesso : anche questa ricorda, come il momento esatto in cui avvertì la
smania di liberarsene. “ Verso i
trent’anni - scrive - avevo nausea
degli oggetti ; e dopo aver viaggiato qualche mese nel deserto fui preso
da una sorta di iconoclastia islamica, e credevo in tutta serietà che non ci si
dovesse inchinare davanti ai simulacri.”
Questo diventa per lui, improvvisamente, tutto ciò che non
sia essenza del cammino : un simulacro. Due torri in toscana o un
monolocale londinese, comunque, a cui tornare ( posti dove scrivere, e per non
sentirsi totalmente ‘senza’) e poi via ; ogni strada è per dove.
Patagonia, Timbuctù...
Soprendente è la sua prosa ‘di viaggio’: asciutta nei
racconti come resoconti (quattro quelli qui riproposti) di universi così
lontani, che basta la loro diversità a farne lettura. Ma più sorprendente è la
sensazione che Chatwin cammina e guarda e scopre, ma è come se sapesse già ciò
che lo attende. Il suo viaggio, insomma, non è ricerca di ciò che ha già
trovato : piuttosto raccolta, di ciò che ha già comunque seminato e
cresciuto. Lui stesso sottolineava che anche questi più fantasiosi e
documentaristici frammenti, del resto, erano ‘idee sue’.
E’ allora un ‘breviario’ di Chatwin in tutto, questo, dove è
proprio il carattere, la personalità, l’essenza dell’Autore, a raccontarsi più
evidente. E immobile : se non
sembrasse un paradosso. Ma non c’è dubbio che dalle letture d’infanzia ai poeti
cui guarda come saldo punto di riferimento, c’è un’assoluta fermezza nel
cammino delle sue scelte, un’impronta stabile nelle sue direzioni.
Una logica. Molto prossima a quell’altra, che lo spinge ad
anatomizzare, appunto, le ragioni (letteralmente) del cammino. O a pensare ad
un libro, di cui traccia qui la bozza, sulla necessità nomade che dalla
preistoria ci accompagna.
Le ultime pagine, infine, tra l’altro meno scarne di stile, ritraggono,
attraverso recensioni o ‘rovine’ (di nuovo luoghi, dunque, case), diversi personaggi
e una manìa. Stevenson (poteva non piacergli ?), Lorenz (entrambe da non
perdere), fino a mitiche celebrità che vissero a Capri. Figure intessute e
lette, anche queste, nel paesaggio.
La manìa è quella dell’arte ; del collezionismo, meglio.
Pagine di analisi (impietosa) dattilografate nel 1973, a tanti anni da quel
rifiuto lontano di se stesso.
Davvero verso un’altra strada, infinite strade, Chatwin indirizzava
ormai la sua raccolta. Ma non è il caso, davvero no, di chiamarlo
collezionista.
Rita
Guidi
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