Se prima era un eskimo, ora è un ombelico forato, ma quel che
conta è che si tratta di indossare un silenzio e una protesta. Un muro, a
volte, tra il mondo degli uguali (i giovani, il gruppo, gli adolescenti) e
quello dei diversi (gli adulti, i genitori, i grandi), in una catalogazione
perfettamente speculare e reciproca a seconda della posizione in cui vi
ritrovate.
Ad aprire un varco, a
gettare un ponte, ci sono però ora le parole, esperte per affetto e professione
e svelte come in un pratico manuale, di Vittorino Andreoli. Celeberrimo
psichiatra, scrittore e studioso, che aggiunge al suo arco anche le frecce di
padre e di nonno, per aprire un dialogo, non a caso in forma di lettera.
“Lettera a un adolescente” (Rizzoli, 142 pagg., euro 9,50), è infatti il titolo
di questa sua opera, che si distingue dalle (tante) precedenti (pure
legate anche alle tematiche del mondo giovanile) per l’essere intrisa di un
minor distacco, di una avvertibile partecipazione.
“Carissimo…” principia
infatti Andreoli, rivolgendosi direttamente a loro, ai nostri ragazzi dai
capelli sbiondati o dalle sopracciglia morsicate da un anellino d’argento. E
come un vecchio (ci tiene, e lo ripete, ci tiene a questa parola), come un
padre o come un nonno, si rivolge a loro spogliato di ogni paternalismo o
banalità. Accettando (che sia questa la formula magica?), accettando ribellioni
e provocazioni in nome della sovranità ultima dell’amore e del dialogo, ma
additando la soglia dei pericoli veri.
“E’ stato dimostrato
che l’intensità dell’essere contro degli adolescenti nei confronti dei padri,
dipende anche dal tipo di relazione che avevano con loro nella fanciullezza –
scrive Andreoli in uno dei tanti passaggi chiave di questa importante missiva –
Ebbene, quanto migliore è stato il rapporto con loro durante l’infanzia, tanto
maggiore sarà la fatica del distacco (…) e dunque il figlio deve fare uno
sforzo maggiore per separarsi. Se non lo fa rischia di rimanere infantile. Si
può continuare a mantenere con i genitori una relazione serena, di obbedienza e
ammirazione, ma il prezzo è il blocco della crescita, e la crescita richiede di
uscire dall’ambito familiare”.
Accettarlo, e
accettare la magnetica forza del gruppo, e più tardi delle prime “morose/i”,
significa allora salvaguardare un dialogo, una continuità affettiva, che al di
là delle apparenze non deve mai venir meno tra padri e figli. Per questo la
lettera di Andreoli è una lettera pensata per gli adolescenti ma perfetta per i
“grandi”. E per questo aiuta a guardare loro e noi, con un equilibrio che scava
via superficialità e luoghi comuni.
Perché è vero. Ci sono
pericoli di morte nella quotidianità di un luogo di ritrovo o nel divertimento
di un sabato sera. Ma Andreoli ci spiega le motivazioni e l’apparente follia di
chi, come i ragazzi, percepisce l’esistenza come un assoluto presente (e dunque
senza una consapevolezza, o meglio, una proiezione futura in grado di
concretizzare l’idea della morte), come quella di chi, i genitori questa volta,
soffocano d’ansia o all’opposto abbandonano a se stessi, i propri cari.
Tutto è difficile ma
nulla è impossibile, insomma, in quell’età (e nei confronti di quell’età)
difficile, che ti riempie di brufoli fino all’anima.
Toccante e magico, in
proposito, il ricordo di un incontro dell’autore con una ragazzina seduta
solitaria sull’orlo della notte. Due parole e lo sfogo (il dolore per
l’abbandono del ragazzo e quello, per disonore, dalla casa paterna) e poi la
voglia assecondata di riaccompagnarla a casa. Un problema risolto in un
abbraccio…
“Mi ha detto, quel
padre – conclude Andreoli – che non aveva più pace, che voleva cercare la
figlia e nello stesso tempo pensava di non dover cedere, per non dimostrare una
debolezza che si sarebbe dimostrata ancor più negativa. Sono stato un po’ con
loro finchè hanno ricominciato a parlare. Ho sentito la voce del televisore
spegnersi e, tra silenzi e qualche parola, è ricominciata la vita”.
Si può fare. Anche se
un lobo è sette volte forato.
Rita
Guidi
Nessun commento:
Posta un commento