necessario ad ascoltare il cielo. E lo è per forza perché il cielo
è lì, ghiacciato e limpido, basta aggiungere un passo sul filo esatto del
vuoto. Non tutti possono osarlo. Occorre l’umiltà di un cuore forte, un
coraggio che fa rima con rispetto.
Gli Alpini possono:
Penne Nere intinte nel sangue di una storia che da soli hanno fatto grande.
Forse perché quel loro prezioso silenzio se lo sono cucito a pelle, sotto la
divisa. O forse perché quel loro segreto ha trovato una voce altrettanto
limpida e intonsa: quella del sottotenente medico Giulio Bedeschi, 13^
Batteria, 3° Reggimento Artiglieria Alpina, Divisione Julia.
Divisione Julia. Occorre
aggiungere altro? Certamente sì. Queste pagine lasciate a metà o già
pubblicate, ritrovate o ricordate, a quattordici anni dalla scomparsa del
medico scrittore delle centomila gavette di ghiaccio. “Giulio Bedeschi – Il
segreto degli alpini” (Mursia Ed., 248 pagg., 17,50 euro), allora, ridà voce
alla memoria indelebile di uomini che sono stati uomini, e poi ci ridà la sua
voce, quella dell’autore attraverso i ricordi incisi su un CD destinato a
saldare, anche con i suoni, le distanze tra passato e presente.
Ogni articolo un
luogo, un distintivo, una trincea, le parole di Bedeschi compongono in questi
frammenti il profilo intenso di uomini, protagonisti o eredi che siano, di una
delle più drammatiche pagine della nostra storia.
Il cappello, allora?
Ma certo. Simbolo irrinunciabile, personalissimo brano di panno infeltrito per
rubare l’ombra al sole o il calore al freddo. Inseparabile Penna Nera anche nel
nero destino che l’ha vista frantumarsi nella Penna Mozza di troppe storie. E
poi i Canti, i raduni, e persino quel
bicchiere-luogo comune, spiegato nel suo orlo di verità: gaiezza e vita, mai
oblìo eccessivo, nemmeno del più tormentato ricordo.
Ma quale vino, anzi,
ma quale acqua, dove le terre del Don si indurivano nel gelo dei 40° sotto
zero? E quale vita, scavata in una tana per rubare alla morte qualcosa di più
di un piede o delle dita? Eppure in quell’inverno di guerra del 1942-43, sul
fronte russo, gli Alpini non smisero un istante di essere uomini. Scavarono un
riparo profondo quanto la trincea tra le proprie esistenze, e così il loro
silenzio divenne patto: segno di croce sotto le bombe, nella notte di Natale,
davanti al cappellano; turni di sonno sottili come il panno e stretti come
l’abbraccio che poteva salvarli dall’assideramento. E’ così che affrontano
assalti e baionette, avanti con quel che resta della forza dei vent’anni e del
sentirsi italiani. E’ così che avanzano, sotto lo sguardo rispettoso dei
contadini Ucraini, scambiando per uova o latte sapone o medagliette. E’ così
che tornano, pochi, ma tutti – vivi ancora o solo nel ricordo – figli dello
stesso patto umano.
C’è un bisogno
assoluto di ricordarlo oggi, nella voce di Bedeschi. La necessità improrogabile
di capirne il silenzio tra tutto questo frastuono. Come se fosse l’unico modo
per trovare il passo giusto ad ascoltare il cielo, per non cadere nel vuoto.
Rita
Guidi
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