Nulla di volontario: non si
tratta di imparare il ‘dire’ oltre l’infantile birignao. Piuttosto, consapevoli
o no, noi trasmettiamo, parlando, ben
oltre l’informazione-comunicazione-chiacchiera a chi ci ascolta. Raccontiamo, nel raccontare, il nostro
essere. Il nostro essere in quel preciso presente che raccoglie però la nostra
intera storia.
Su questa idea, su questa nostra possibilità e necessità di
rivelarci implicito, anche quando...ci lamentiamo del tempo, si basa uno dei
più recenti orientamenti della psicanalisi.
E’ il cosiddetto ‘conversazionalismo’,
o meglio l’ Accademia delle tecniche
conversazionaliste, nata da un’intuizione di Giampaolo Lai, che ne è
appunto iniziatore e capostipite...
“Una decina d’anni fa
ho iniziato a prendere le distanze dalla psicanalisi classica. - spiega Lai, che dopo una tradizionale
formazione medica, si è specializzato in Psicanalisi in Svizzera per poi
esercitare la professione, a Milano, seguendo appunto i canoni classici - Mi sono chiesto perchè il linguaggio, nei
dialoghi tra paziente ed analista, dovesse essere interpretato solo in senso
semantico, badando solo, cioè, al suo significato e contenuto. Mi sono chiesto
se invece, indipendentemente da ciò che esprimeva e da chi lo pronunciasse, non
rivelasse ‘altro’...”
Una conversazione ‘altra’, dunque...
“Sì. Il
conversazionalismo è nato proprio così. Per questo abbiamo pensato di registrare questi dialoghi, trascriverli e
poi analizzarli. Abbiamo voluto insomma emancipare le parole: considerarle non
più strumenti ma situazioni autonome.”
Ma in che modo la parola può essere letta come ‘situazione
autonoma’, verrebbe da dire ‘sopra le
righe’ rispetto al racconto del paziente?
“Analizzandola proprio
dal punto di vista grammaticale e sintattico;- precisa Lai senza un’ombra
di ovvietà nel tono di voce - osservando
i soggetti, ma anche i tempi e i modi in cui si declinano i verbi che appaiono
nel testo. Una volta ottenuta questa sorta di inventario, finalmente ci saremo
occupati più del soggetto psicologico che non delle azioni dell’individuo
parlante.”
Prima il ‘come’ del ‘che cosa’, come in una nuova coincidenza
tra forma e sostanza. Verrebbe voglia di ‘deviare’ sugli usi più consueti della
parola. Su quella dei poeti o dei letterati. Sul loro trasmetterci se stessi e
le proprie emozioni...
“E’ ciò che abbiamo
pensato (e fatto) anche noi. - sorride Lai - Da non confondere con le indagini analitiche degli anni ‘40; con la
ricerca obsoleta della realtà inconscia degli autori. Romanzi, poesie,
piuttosto, sono fatti di parole che lo scrittore sceglie appositamente per
comunicarci meglio una determinata sensazione.”
Ad esempio?
“Ad esempio anche nel
mio ultimo libro analizzo i testi del ‘L’Infinito’ di Leopardi e ‘Guido
i’vorrei...’ di Dante. Ebbene è evidente che il poeta di Recanati fa grande uso
dei verbi nei modi indefiniti: un uso caratteristico in chi voglia comunicare e
convogliare indefinitezza e indeterminatezza nell’ascoltatore. Quanto a Dante -
prosegue Lai - su quattordici versi c’è praticamente un solo soggetto.
Un’assenza che riproduce un’assenza dell’io, tipica della trans ipnotica, in
questo caso dell’incantamento.”
Vaghezza e sogno, dunque, non patologia...
“No,no. Ripeto.
Quest’ottica è obsoleta...”
Ma anche questo può essere pensato come letteraria conferma
dei vostri studi...E dunque ci riconduce alle patologie...
“Certamente. Tenendo
presente che si parla di sofferenza e non di malattia, - precisa Lai - se
vogliamo tornare, ad esempio, su chi fa grande uso di predicati al modo
infinito, che è un modo legato alla non-determinazione nè di persona nè di
genere, possiamo pensare che sia un soggetto caratterizzato da una certa
vaghezza e incertezza psicologica.”
Possiamo definirla una ... diagnosi grammaticale?
“Se vuole...Senz’altro
però è più libera da interpretazioni soggettive. Il testo è lì, osservabile,
‘scientifico’, confrontabile. Pronto al ‘salto’: dal punto di vista
grammaticale a quello psicanalitico.”
D’accordo per la diagnosi, ma la terapia?
“Si basa anch’essa
sulla conversazione. Se vogliamo tornare al soggetto di prima, un primo passo
sarà nell’aiutarlo a diminuire l’uso degli infiniti semplicemente non usandone
nel parlare con lui.”
Parole come diagnosi, parole come terapia, ma allora possiamo
pensare anche a parole come prevenzione? Quando dovremmo preoccuparci delle
nostre parole? Quali i campanelli d’allarme?
“Preoccupiamoci se noi
o chi ci sta accanto non usa mai verbi al condizionale o al futuro. Questi sono
infatti verbi funzionali, attraverso cui ognuno di noi esce dalla necessità del
presente o del passato per accedere al mondo futuro. Non farne uso e’ indice di scarsa progettualità, di un soggetto cupo,
depresso.”
Meglio che cosa, allora?
“Meglio l’imperfetto
- suggerisce Lai - Lo si usa spesso nelle
situazioni di innamoramento, di vaghezza, di gioco, di sogno...Lo preferisca
- sorride - al passato remoto che,
invece, irrigidisce l’ascoltatore, quando vuole ottenere qualcosa...”
D’improvviso la parola torna ad essere un poco magica,
dimentica di ogni sottintesa scientificità. O forse così comunque è, ed è
sempre stata...
“Cos’è la parola per me?
- conclude Lai - Senza alcun dubbio,
divina. Per questo, anche nel mio lavoro l’ho preferita autonoma piuttosto che
ancella della mente. E’ l’unica cosa divina nel mondo. Tutto il resto è natura.
Tutto il resto lo condividiamo con la natura e gli animali. La stessa Bibbia
dice che in principio era il Verbo...”
Le parole cambiano con noi, l’abbiamo detto. E ci
rappresentano. Sarebbe bello però poter dire che noi siamo le parole...
Rita
Guidi
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