La sua casa è un cubo in equilibrio sul nulla, ma quel
suo orizzonte con gli spigoli non gli
serve a comprendere gli assurdi profili della realtà. Angelo Spini, del resto,
quella strana dimora non la usa per viverci, ma per sottrarsi a quanto, della
vita, non possa abitare dentro la sua mente.
Per questo si chiama
“Fuga dal mondo” (Rizzoli, 249 pagg., 17 euro) l’inconsueto, complesso romanzo
di Vittorino Andreoli, del quale Spini è assoluto protagonista. Inutile
precisare che in ogni pagina è perfettamente udibile la voce più celebre
dell’autore; le sopracciglia caotiche e folte di chi si addentra da studioso
nei labirinti (anche più cupi) della psiche umana. Ma, accanto ad essa, ecco il
crearsi di una parola altra, tormentosa e libera, a dar vita al difficile
snodarsi di questa storia.
Perché Angelo Spini è
il discendente di una dinastia di nessuno, il figlio di un nome che ha iniziato
a riscattarsi da un’ancestrale povertà, ed è diventato un eccentrico e celebre
pensatore di idee. Inventore di necessità mai necessarie, ma per questo
straordinariamente vendibili…
“Vengo sovente a New
York – spiega lo stesso Spini a uno dei rari personaggi che lo affiancano in
questo libro, e cioè l’avvenente e blasonata Donna Ludovica, incontrata per
caso a un tavolo del Plaza – uno dei rari luoghi in cui si possono vendere
idee(…). Qui si acquistano e hanno un copyright come ogni altro prodotto e si
fanno anima di organizzazioni capaci di produrre ricchezza”.
Per questo ora anche
lui è ricco. E di quella inattesa ricchezza è simbolo la sua casa. Un cubo
sospeso sul nulla di un dirupo, in aperta ostilità con le leggi della fisica e
con quelle del mondo. Un’isola. Più lontana dalla città che da quel cimitero
dove ora è sepolto suo padre e verso il quale così spesso ama incamminarsi.
Quant’è più facile
parlare con i morti. E quant’è facile scoprire la fluidità di apparenze quali
la vita e la morte. Paradigmi sottili. Mentali. Ecco: mentali. La voce del
libro grida esattamente lì, per dirci della straordinaria concretezza dei
nostri pensieri. Per dirci che tutto è (e nemmeno tanto filosoficamente), se è
nella nostra mente. Solitudine e paura, follia e felicità. Fluidi immensi e
cerebrali che bagnano di concretezza ogni nostro gesto sul reale.
Non è un caso che il
breve spessore delle vicende, già occasionale contorno nella prima parte del
romanzo (l’incontro passionale con Donna Ludovica, appunto, o quello grottesco
con un caricaturale e italianissimo Capo di Stato), si annulli nella seconda,
denominata Tzero. E’ qui che l’autore amplia in uno spazio assoluto e
tutt’altro che conclusivo, gli orizzonti cubici del protagonista.
“Questo è il mio mondo
e non ho nostalgia del mondo (…)– vi si legge – C’è un mondo, il mio mondo,
dove mi sento il fattore e un altro mondo, quello concreto, di cui al massimo
sono un ospite e di fronte al quale provo spesso un senso di inadeguatezza, di
paura e la voglia di scappare (…) Vivo isolato in un luogo disabitato, senza
rumori umani e con tutto il mondo dentro la mia testa Quando cerco di rappresentarmi un insetto del
mondo creato da Dio faccio più fatica che a generare io stesso un animaletto
che non esiste
Tanto può essere così sottile la barriera tra la vita e la
morte(...) Sono nel mio mondo e ci campo bene. Un mondo dentro la testa. Sono
il dio di questo mondo.”
Il dio di un mondo in
equilibrio sul nulla.
Rita
Guidi
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