Sarebbe forse più bello vivere ignorando il dolore ?Anestetizzati alla sofferenza ? Sordi a una conoscenza
che è di ogni altro uomo, ciechi di quelle lacrime che ci regala il nostro
primo respirare nel mondo ?
Lo chiede e ce lo chiede Andrew Miller, con questo suo “Il
talento del dolore” che esce ora da Bompiani. Un’opera prima di questo autore,
che ha conosciuto l’Oriente (ha vissuto e lavorato in Giappone...) e
l’Occidente, nordico e latino (...ma anche in Olanda e Spagna). Romanzo
comunque già acclamato, pubblicato in diciotto Paesi.
Forse perché più che romanzo è appunto una (quella) domanda.
E più che una domanda un grido, per questo già inquieto di risposte.
La cornice è il Settecento : orizzonte di natura e
ragione, ma con briciole indomabili di cielo, magia, superstizione. Il
protagonista è un medico, scienziato non ortodosso, raccontato in una vita
densa, straordinaria e difficile, più spesso dagli occhi degli altri, e dunque
ciarlatano o pazzo, luminare o stregone. Gli altri : figure perfette di
quel diciottesimo secolo. Di un tempo in cui gli uomini vestono parrucche e
leggono il “Candido”, ma alle donne basta un cenno per essere guardate come
streghe.
Tutto è insieme fantastico ed esatto, nelle pagine di Miller.
Che parla con parole forti. Il presente storico, le immagini crude, dal
ripugnare necessario e morboso come nel primo D'Annunzio ; la quotidianità
in caduta libera quando lo stile lo trascina troppo in alto, e poesia a piene
mani quando dipinge i paesaggi dell’anima. Soprattutto di una. Accanto a
quella, turbata e umanissima fino ad ammiccare a un don Abbondio, del reverendo
Julius Lestrade, autentica cerniera del racconto, le pagine, una dopo l’altra,
trafiggono quella del medico, appunto, James Dyer. La trafiggono senza dolore,
certo : Dyer non sa cosa sia. Nasce muto, ma perché senza pianto. Cresce
bello, nella rustica campagna inglese - qualche carro, un villaggio - ma gli
sguardi che attira il suo strano silenzio, vanno al fondato sospetto che il
piccolo non sia esattamente sangue del suo sangue. Finchè un giorno la vita
bussa alla porta di casa : James cade e si rompe una gamba, e parlerà, ma
non piange perché non soffre, e guarirà presto, incredibilmente presto ;
la sua famiglia, invece, non guarirà dallo sterminio atroce del vaiolo.
Il mondo è ora davanti
alla sua solitudine. Fenomeno da baraccone per quel suo innato, misterioso
talento del dolore, da martoriare senza un grido, sfruttato o coccolato,
geniale fanciullo che insegue anche per mare la propria libertà, James non
perde però occasione per imparare, capire, diventare. Lo avvince il corpo, quel
mistero che è dentro lui stesso, quella materia che può essere preda di un
dolore che non conosce, ma che si può sezionare, curare, debellare. Sarà
medico, di cinismo e di fama. La ricchezza sgorga copiosa dal suo bisturi
spregiudicato. Guaritore di corpi, e che altro (c’è altro) ? Bisognerebbe
forse chiedergli altro che non di tagliare-suturare-cucire il più velocemente
ed efficacemente possibile, in cambio di danaro e di oro ?
La sofferenza non la sa, ma la guarisce ; e il piacere
neppure, non ne ha il tempo, né la necessaria debolezza di uomo, per
apprezzarlo o condividerlo. Anima sotto anestesia. Fino al risveglio. Al tempo
in cui scocca il dolore, e il solo esistere possibile chiede gli arretrati.
Romanzo e atmosfere si fanno qui pazze, dolcissime, dolenti.
James nasce, faccia nella polvere, alla vita degli altri. Ora appartiene al mondo. Orizzonte che fa
subito dimenticare il suo confine Settecento. Che ha un’eco costante, anche
troppo vicina. E suoni attuali : natura e tecnica, ma con cenni indomabili
di cielo e magia ; universi virtuali e ricchezze che soffocano grida e
domande. Anestetizzano alla sofferenza. Come si potrebbe vivere ignorando il dolore ?
Come si può vivere, dimenticandolo ?
Rita
Guidi
Nessun commento:
Posta un commento