sabato 26 gennaio 2019

IO? PARLO PARMIGIANO- INTERVISTA AL PROF. GIOVANNI PETROLINI di Rita Guidi


Il dialetto? Lingua ‘nera’. Ma proprio nel senso troppo spesso implicitamente negativo di ‘diversa’.
Lingua di colore, preferiremo allora, più garbatamente, e soprattutto intendendone la piacevole vivacità, la colloquiale suggestione. (Occorre forse un esempio migliore della nostra  gialloblù?)
Ma è comunque difficile salvarsi (e salvare) da un razzismo linguistico diffuso, almeno quanto evitare di cadere, al contrario, nella trappola di snobistici atteggiamenti da WWF. 
Equilibri difficili: quello tra dialetto e lingua è un gioco che è tutto fuorchè chiacchiera.   Può sussurrare tradizioni o gridare autonomismi, perchè il suo vocabolario raccoglie voci di politica e di costume, di letteratura e di storia oltre a quelle più squisitamente idiomatiche.
L’etimologia, del resto, ricorda proprio che il termine greco diàlektos da cui deriva, significa ‘parlata locale’. Come dire (allora...) quella di Atene o invece quella di Sparta: universi paralleli  di una stessa Ellade...
Ma pensiamo anche oggi, ad esempio, al movimento irridentista Còrso che sta rivendicando la propria autonomia rispetto alla Francia - afferma il Professor Giovanni Petrolini, docente di Dialettologia del nostro Ateneo, sottolineando appunto questo primo delicato aspetto della questione - La rivendicazione coinvolge anche la lingua: elevare un dialetto a dignità di lingua, significa infatti metterlo in concorrenza con la lingua ufficiale.”
Concorrenza sleale, in genere, quella opposta: spaziando in versanti meno ‘rivoluzionari’ è opinione diffusa che i dialetti siano forme scorrette dell’italiano (e non è vero perchè ne sono indipendenti) o che sono meno ricchi, stabili, regolari ( e non è vero perchè questi tre fattori dipendono solo dall’uso o dall’abbandono del dialetto stesso).
Lingua ‘nera’. Pregiudizi.   Torniamo allora alla Grecia ( e alla storia ): sarà proprio un diàlektos  (guarda caso quello di Atene) a farsi koinè, lingua comune (guarda caso con l’esclusione di Sparta). Ed accade lo stesso poi, in Italia: dal latino imbarbarito e distorto, nasce tra gli altri quel dialetto fiorentino che, fra Tre e Cinquecento diverrà lingua letteraria comune.  Anche se in quel ‘letteraria’ è già la radice di una lontananza da quel parlato spontaneo che ramifica e progredisce seguendo una propria traccia nel labirinto dei linguaggi.
 Verrà il 1861, insomma, e verrà la tivù, ma avranno sempre, accanto, altre parole e altra scrittura.
Ma allora dove coincide (se coincide) dialetto e lingua? O meglio quando possiamo chiamare lingua un dialetto (motivo d’orgoglio di veneti o di napoletani, ad esempio)?
Credo che il significato letterario sia determinante - spiega ancora Petrolini - E’ più importante chi ha prodotto più letteratura. Dunque il dialetto napoletano o quello veneto, certo. Ma credo molto anche nella dignità letteraria del nostro parmigiano, di Zerbini o di Pezzani. Non  definirei davvero minore la loro produzione.”
Di nuovo le carte si confondono. La radice spontanea deve dare un frutto letterario. Logica conclusione, in fondo, di una lingua viva. Ma... è viva ?
Solo qualche anno fa avevo calcolato in una sorta di grafico, che col ‘trand’ degli anni ‘80, nel 2030 il dialetto parlato sarebbe totalmente scomparso. Oggi - prosegue Petrolini - non la penso più così. La vita dei dialetti è una vita intima e segreta. Certo non credo abbia grandi prospettive in ambito pubblico, se guardiamo ad orizzonti europei. Ma certamente vivrà finchè ci sarà un poco di volontà per farlo vivere. Un poco di cuore.”
Dovremmo forse aggiungere un poco di scienza?  Sembrerebbe di sì, dal momento che discipline più recenti, come la sociolinguistica, guardano  proprio al rapporto tra una società e i suoi strumenti espressivi. Tutti i suoi strumenti espressivi. Ne consegue che il dialetto, a partire da quegli ambienti scolastici dove era particolarmente ghettizzato, ritrova un poco di ossigeno.
 Primo argine ad un patrimonio però in gran parte perduto: le parole che restano  non guardano certo ai ritmi dei campi o delle stagioni; a quel mondo contadino che battezzava insieme alle future braccia di tavole numerose, una parola per ogni gesto.
Qualcuno ha raccolto in un libro bellissimo (“I nomi del mondo” di Einaudi) quelle parole; talismano per un oggi di single terziarizzati, al quale ne bastano (ed occorrono ) altre.  Tanto che il rischio, adesso, per chi volesse conoscere e parlare il dialetto, sarebbe paradossalmente quello di non essere capiti...
I dialetti sono fatti per comunicare meglio. Si desidera
apprenderlo quando si pensa sia utile per farsi capire meglio. Oggi, purtroppo - continua Petrolini - se lo si studia ‘troppo bene’ si rischia, all’opposto l’incomprensione...O, chissà, forse per  qualcuno è proprio quello che si desidera...”
Particolarismi eccessivi di luoghi particolari, allora. Cenni criptici per cui si fa confine ciò che è anche invece permeabile apertura.  O, più semplicemente, curiosità:  sapevate, ad esempio, che una rivendicazione classica relativa al dialetto parmigiano  è l’esclusiva proprietà del termine ‘spargnaclèr’?  Che, cioè, questo più o meno intraducibile ‘spiattellare’ è solo nostro?
Se la cosa vi fa un poco sorridere in fondo è giusto. Il colore del nostro dialetto ama il sorriso. Comunica (ci comunica) la risata semplice dei nostri padri. Possiamo  allora considerarla parola ‘diversa’, o anche soltanto parola, o invece qualcosa di più?
E’ soprattutto qualcosa di più. - conclude Petrolini - E’ il buon senso dei nostri vecchi...E’ un punto di riferimento. E non intendo solo culturale, ma morale.”
                                         Rita Guidi

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